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ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Quella voglia malsana di mafia

Cercare nei processi lo stigma mafioso a tutti i costi, equivale a svuotare della sua natura il reato stesso di associazione mafiosa

Nel dicembre 2014, sfidando l'impopolarità, Panorama prese una posizione netta dopo gli arresti dell'operazione Mafia Capitale: letti gli atti della Procura e quelli del giudice che aveva ordinato gli arresti, scrivemmo a chiare lettere che l'aggravante mafiosa non reggeva.

Perché, ad esempio, vi erano fatti che facevano "a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un'organizzazione sovrapponibile a Cosa Nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani". Quando saranno disponibili le motivazioni della sentenza del Tribunale di Roma, che ha escluso per tutti gli imputati l'onta della mafiosità, capiremo quanto il nostro ragionamento fosse stato corretto.

Quello che di sicuro i giudici hanno sancito è che a Roma imperava un'associazione a delinquere capace di condizionare fino al midollo le istituzioni. Non è poco, anzi.

Alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone va dunque dato atto e merito di aver affondato con grande professionalità le mani nel marciume e di averlo fatto emergere con chiarezza.

Ma "mafiare", ripetiamo, è altra cosa. Perché è il marchio dell'infamia assoluta, rappresenta il livello criminale che vuol sostituirsi allo Stato e che per raggiungere i suoi scopi è disposto a scardinare le istituzioni dalle fondamenta anche con il ricorso alle bombe.

Ciò che ora è importante analizzare sono gli effetti successivi al verdetto.

I giudici del tribunale sono stati bersaglio di critiche anche molto puntute per aver negato l'aggravante del 416bis, critiche precedute dal solito paravento che "le sentenze vanno rispettate", salvo poi menare colpi sotto la cintola. Non vale, come ha affermato il procuratore Pignatone, sostenere che siccome prima del tribunale altri giudici (Gip, Riesame e Cassazione) avevano sposato l'impianto dell'accusa significa che questa era fondata per concludere: "A Roma la mafia c'è".

L'alternanza di pronunciamenti anche opposti di giudici diversi (uno assolve, l'altro condanna) rappresenta quella che quando fa comodo normalmente viene derubricata dalle procure a "normale dialettica processuale".

Così come cercare a tutti i costi lo stigma mafioso nell'inchiesta di Roma (e siamo a Gian Carlo Caselli, Rosy Bindi o Franco Roberti) equivale a svuotare della sua essenziale natura il reato stesso di associazione mafiosa.

Invocare poi una modifica legislativa come chiesto dal capo della polizia Franco Gabrielli significa aggiungere confusione in un terreno già assai scivoloso: basta guardare indietro al papocchio del "concorso esterno" e alla mortificazione del diritto che abbiamo vissuto proprio nel nome di una sconclusionata innovazione legislativa.

La sentenza del tribunale su Carminati & C. avrebbe invece potuto e dovuto diventare un punto di riflessione seria intorno alla mafia. Sforzarsi di modellare intorno all'inchiesta della capitale l'abitino lercio di Cosa Nostra non aiutaa combattere il fenomeno.

Si proceda piuttosto a porre fine alla gestione dissennata del tesoro da beni sequestrati e confiscati già al centro di scandali tutti interni alla magistratura: ci sono da destinare quasi 17 mila immobili, 7.800 beni finanziari, 9.600 beni mobili e 2.492 beni aziendali. Valgono miliardi di euro.

Se l'antimafia si parlasse un po' meno addosso alla ricerca costante di una legittimazione che per alcuni è esiziale per rimanere sul palcoscenico, di sicuro la lotta alla mafia ne uscirebbe rafforzata. Ma continuare a dividere l'antimafia buona dall'antimafia cattiva è veramente insopportabile.

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Giorgio Mulè