Claudio Descalzi
Carlo Carino/Imagoeconomica
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Il garantismo a corrente alternata di Renzi

Il caso Descalzi e quello Acerbo: la doppia morale di Palazzo Chigi relativa a due inchieste chiave del nostro Paese

Ho riflettuto su alcuni fatti di cronaca giudiziaria, in particolare sulle notizie riguardanti l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi e sul manager di Expo Antonio Acerbo. Entrambi sono indagati dalla Procura di Milano per corruzione, l’ad di Eni addirittura per corruzione internazionale, in vicende totalmente diverse. Non voglio entrare nel merito delle accuse, non è questo il punto. Vorrei mettere Descalzi e Acerbo su un piano parallelo e verificare come si sono mossi la politica, e il governo in particolare, dal momento in cui la notizia dell’indagine è stata diffusa dai giornali.


Primo atto. Descalzi è al vertice di un colosso che è vanto industriale del Paese ed è stato nominato da Matteo Renzi pochi mesi fa. Appresa la notizia dell’indagine per corruzione internazionale, Renzi  si affretta alla tastiera e twitta: «Sono felice di aver scelto Descalzi come ceo di Eni. Potessi lo rifarei domattina». Poi va alla Camera e lancia un monito, un severo monito verrebbe da dire: «Non consentiamo a uno scoop di mettere in crisi dei posti di lavoro o a un avviso di garanzia citofonato sui giornali di cambiare la politica aziendale di un Paese».


Il premier, in pratica, non consente alla magistratura di invadere il campo della politica; assolve il manager; criminalizza lo scoop (è del Corriere) accusando il magistrato di avere «citofonato» la notizia al giornale. Su quest’ultimo punto sia consentita una digressione: se è vero, com’è vero, che sulla giustizia è in preparazione una riforma, pardon una grande riforma, sarà il caso che memore anche del passato lontano e recentissimo Renzi introduca norme rigide e realmente punitive dal momento che i magistrati a furia di «citofonare notizie» politicamente sensibili (ricordate la madre di tutte le citofonate, cioè l’avviso di garanzia del 1994 a Berlusconi?) quel citofono l’hanno rotto da tempo. Torniamo a Descalzi. C’è un presidente dell’Autorità anticorruzione, il magistrato Raffaele Cantone, fortissimamente voluto dal premier in quella carica con poteri che addirittura superano quelli della magistratura ordinaria. Lo «sceriffo» Cantone non fa sconti a nessuno: ha già chiesto e ottenuto il commissariamento di aziende senza alcuna condanna e l’allontanamento di manager appena indagati, ha poteri che gli consentono di chiudere la saracinesca prima ancora che sia avviata un’inchiesta. Su Descalzi indagato per corruzione internazionale, a capo di un’azienda di cui lo Stato è azionista di maggioranza, quali provvedimenti invoca Cantone? Nessuno. Quali dichiarazioni rilascia? Nessuna.


Secondo atto. Antonio Acerbo, manager voluto dall’ad di Expo Giuseppe Sala dopo che il predecessore era finito in un’inchiesta per tangenti, viene indagato per corruzione. L’apparato politico va in cortocircuito. Renzi non dice una parola mentre il sindaco di Milano Giuliano Pisapia invita Acerbo a presentare immediatamente le dimissioni. Cantone si precipita in procura per chiedere notizie e prima di salire in aereo dichiara: «La sua permanenza (di Acerbo, ndr) può essere un problema». Sul manager di Expo si arriva a un compromesso: in pratica viene semi-dimissionato, non seguirà più il progetto oggetto d’indagine (quello sulle cosiddette «Vie d’acqua») ma conserverà l’incarico per il Padiglione Italia.


Morale. La presunzione d’innocenza e il primato della politica sulla magistratura valgono solo per chi orbita nella sfera di Palazzo Chigi (oltre a Descalzi si vedano i casi del pd Stefano Bonaccini, candidato alla guida dell’Emilia-Romagna, o quello del papà di Renzi, Tiziano);  non si applica invece agli altri (gli Acerbo, per intendersi) per i quali si è colpevolisti con atteggiamenti addirittura criminalizzanti. Da una parte ci sono gli assolti e i «giustificati» vicini al premier; dall’altro lato ci sono i reprobi e i braccati da Cantone, ovviamente invitati o esplicitamente costretti a dimettersi. Non so a voi, ma a me questa doppia morale fa venire la pelle d’oca.

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Giorgio Mulè