L'ultimo treno per il Partito democratico
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L'ultimo treno per il Partito democratico

Non si capisce perché il Pd non riesca a trovare una sua strada diversa da quella delle procure per battere Silvio Berlusconi

Un partito moderno, laico, autonomo e autorevole dovrebbe pensare con la sua testa e camminare con le sue gambe. Un partito che orgogliosamente afferma di guardare con grande senso di responsabilità alle esigenze e ai drammi del Paese non dovrebbe poi farsi teleguidare dalla nota lobby editoriale di Repubblica (altrimenti nota come «struttura analfabeta») o farsi intimidire dagli zelanti manganellatori della gazzetta delle procure, meglio conosciuta come il Fatto quotidiano. No.

Un partito serio, e sottolineo serio, dovrebbe avere il coraggio di voltare pagina e agire di conseguenza. Del resto, se il Partito democratico vuole davvero segnare politicamente la storia dei nostri giorni, ha senza dubbio la possibilità di riuscirci; ma a condizione che sappia mettere davanti a tutto l’interesse dell’Italia.

In quel «tutto» sono comprese molte delle deviazioni degli ultimi vent’anni, a cominciare dall’odio viscerale per Silvio Berlusconi dal quale una parte importante del Pd non ha mai saputo emanciparsi, arrivando addirittura al punto di trasformare quell’odio nella essenza stessa della propria missione politica e del proprio programma di governo. Ed è compresa pure la necessità di riportare finalmente nell’alveo di una cultura democratica quell’ala del partito che ancora si crogiola nell’illusione di potere costruire e consolidare il proprio consenso elettorale attraverso una sottomissione, senza se e senza ma, allo strapotere dei magistrati.

Il Pd superi l’ostacolo preliminare che gli ha impedito, dal 1994 a oggi, di diventare a pieno titolo una forza politica matura e affidabile: smetta di considerare Silvio Berlusconi il male assoluto e di pensare che una sentenza della magistratura possa eliminarlo dalla scena. Al contrario: a oggi tutti i sondaggisti accordano la vittoria al Cavaliere in caso di elezioni anticipate. Ciò dovrebbe suggerire al Pd di cambiare atteggiamento, di ragionare e di sotterrare l’ascia della guerra giustizialista. Lo strumento è a portata di mano: basta rinunciare al pregiudizio e considerare Berlusconi come un normale senatore e non «il senatore» da cacciare a tutti i costi per darlo in pasto a pm assetati di antiberlusconismo.

 Potrebbe farlo con un semplice atto: accettando di approfondire le questioni legate alla legge Severino e rimettendo ogni dubbio nelle mani della Corte costituzionale, come suggeriscono autorevoli giuristi di diverso orientamento non a caso messi subito alla berlina dalla «struttura analfabeta» di Repubblica e puntualmente
linciati dal Fatto. Lo suggerisce perfino uno storico esponente, del Pci prima e del Pd dopo, che risponde al nome di Luciano Violante. Il quale, da ex magistrato, nel rinvio della legge alla Consulta non vede né inciuci né sottomissioni né bieche strategie di dilazione ma, guarda un po’, «l’applicazione della Costituzione», quella che ostentatamente i suoi compagni di partito giudicano la più bella del mondo.

Se ne freghi allora il Pd dei «pizzini» (e delle minacce) che immancabilmente gli saranno recapitati dai giornali di cui sopra da qui al prossimo 9 settembre, giorno in cui la giunta delle immunità di Palazzo Madama si riunirà: dimostri la sua indipendenza dai forcaioli interessati. Solo rimettendo la politica al centro della propria azione il Partito democratico farà veramente il bene del Paese. In caso contrario si prepari al tonfo definitivo, a diventare un partitino inessenziale e inconcludente, come quelli di Antonio Di Pietro o di Antonio Ingroia, nati solo per agitare le manette e nulla più.

L’Italia dei tempi difficili ha bisogno di statisti, come Palmiro Togliatti e come Alcide De Gasperi, che non abbiano paura della realtà e che sappiano conseguentemente adottare le decisioni straordinarie.
Non ha bisogno di magistrati travestiti da politicanti, né di politicanti travestiti da magistrati.

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Giorgio Mulè