La Siria, le armi chimiche e le mani nella mostarda
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La Siria, le armi chimiche e le mani nella mostarda

Possono gli agenti chimici costituire un motivo di attacco in Siria? I dilemmi di Obama & Co.

Per Lookout News

Durante la visita in Israele del mese scorso, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama disse che l’uso delle armi chimiche in Siria sarebbe stato il “game changer” che avrebbe cambiato le carte in tavola nella partita per il futuro del Paese mediorientale. Ovvero, l’elemento dirimente per scatenare l’ira funesta della NATO contro il nuovo dittatore impenitente.

Ora, come già documentato in precedenza, ricordiamo per la cronaca che la NATO è pronta da tempo a intervenire militarmente nel teatro siriano e ogni opzione - i piani preparati dal capo del Pentagono, Chuck Hagel, sono già sulla scrivania del presidente nella stanza ovale - è stata analizzata e calcolata attentamente.

La questione del gas “mostarda”, del nervino, dell’iprite, del VX e di tutti i nomi della galassia di agenti che possono venire in mente quando si citano le famigerate armi chimiche, ci dice due cose che travalicano la guerra civile siriana. Primo: le armi chimiche servono solo a mettere il cappello alla volontà di intervenire da parte dell’Occidente e costituiscono il classico casus belli, la leva per giustificare l’entrata in azione.

Secondo: la scriminante sulla reale necessità di questa guerra non è data solo dalle logiche geopolitiche che alcuni Stati perseguono ma anche dal fatto che il mantenimento dello status quo sta provocando un allarme umanitario, ormai insostenibile per i fragili confini della regione. E a rischiare più di tutti sono: Giordania, Libano, Iraq, Turchia e Israele.

I protagonisti della guerra in Siria
Pochi giorni fa il re di Giordania, Abdullah II (lo stesso che a marzo aveva tentato una mediazione col regime ed era poi tornato da Damasco riferendo che Assad è praticamente “fuori di testa”), è volato a Washington per riferire a Obama le sue impressioni e ricordagli che i confini giordani “scoppiano” per il quasi mezzo milione di rifugiati che lo hanno attraversato e che vivono ormai in piena emergenza umanitaria.

Prima ancora, Obama aveva incontrato alla Casa Bianca l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, per discutere degli stessi argomenti (il retro pensiero di Obama sta nella consapevolezza che il Qatar vede positivamente un intervento militare in Siria). Anche la Turchia, che si è dotata di tutti gli strumenti difensivi necessari, dai Patriot alle migliaia di soldati al confine, teme l’escalation.

Ma i più allarmati, tra i protagonisti della vicenda, restano gli israeliani. Israele preferirebbe non scegliere tra lo status quo e un rovesciamento del regime di Assad. E, se introduciamo l’elemento armi chimiche, il problema diventa evidente: meglio un Assad che, per quanto detestabile e pericoloso, controlla l’esercito e gli armamenti, o meglio una nuova stagione che cancelli il passato regime? Nel secondo caso, le incognite sono troppe: il rischio che la Siria diventi terreno fertile per Al Qaeda e l’alta probabilità che le armi, chimiche e non, finiscano in mano ai nemici di Israele.

A Tel Aviv, però, sanno bene che il Free Syrian Army, l’esercito di liberazione siriano cui si sono uniti temporaneamente i gruppi qaedisti come Jabath Al Nusra, non si fermerà fino a che Assad non sarà deposto. Da qui il dilemma se aiutare il regime a cadere o attendere gli eventi. La risposta di Israele per il momento sembra essere: meglio un intervento deciso dagli USA.

Cosa vuole l’America?
Tutti, insomma, guardano agli Stati Uniti per dirimere la questione, come se il problema potesse risolverlo solo la NATO, di cui gli USA sono il vertice oggettivo. Barack Obama, però, non vuole essere ricordato dalla storia come l’ennesimo presidente che ha impantanato il suo esercito in una guerra lontana. E, del resto, il popolo americano difficilmente potrà comprendere il significato dell’intervento in Siria. A maggior ragione se il casus belli sono ancora una volta le armi chimiche (il ricordo dell’Iraq è ancora troppo vivo nell’opinione pubblica). Eppure, Obama sa altrettanto bene che chiunque altro prendesse l’iniziativa darebbe il via a un conflitto immane nella regione. Dunque, che fare? Meglio chiedere ai russi.

Cosa vuole la Russia?
Hafez Assad, il padre di Bashar, fu già in ottimi rapporti con i sovietici in funzione antioccidentale e, da allora, non molto è cambiato. Per Mosca, i rapporti commerciali – che vanno dal petrolio alle merci fino alla fornitura di ingenti quantità di armi a Damasco – restano vitali, anche perché la Siria rappresenta l’unico accesso della marina russa nel mar Mediterraneo, attraverso l’avamposto della città siriana di Tartus, dove si trova una base navale della marina russa.

Se gli eventi non precipiteranno improvvisamente - due giorni fa il primo ministro siriano è scampato per miracolo a un attentato dinamitardo e ieri due missili terra-aria hanno sfiorato un aereo passeggeri russo – è probabile che la decisione finale avvenga dopo una concertazione con la Russia: Barack Obama e Valdimir Putin si incontreranno privatamente in Russia a settembre per un summit. Ma prima ancora c’è il G8 di giugno.

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Luciano Tirinnanzi