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ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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L'arte di farsi da parte

Un politico che avrebbe potuto fare ma che è rimasto vittima di arroganza e presunzione: quelle del suo stesso carattere

Io non so se Matteo Renzi farà bene come novello Alberto Angela per un programma tv in cui vuol mostrare le bellezze d'Italia. La parlantina non gli manca e neanche l'intelligenza, magari sullo schermo non otterrà lo stesso effetto che ha ottenuto a Palazzo Chigi: il rigetto.

Il referendum sulle riforme istituzionali è stato l'emblema di questo rigetto. Abbiamo votato no a una riforma migliore dell'attuale legge elettorale perché Renzi se l'era fatta su misura e per potercelo togliere dai piedi.

Ha fatto votare con la pancia perfino quelli come me che la pancia la tengono a bada. Un capolavoro. Non ne vado fiero. Oltretutto ero partito con tutte le buone intenzioni di questo mondo nei confronti del giovin fiorentino. Buone intenzioni che sono andate a sbattere contro l'arroganza di un politico emergente la cui politica guardava lontano per finire sul suo ombelico.

Racconto un episodio che non ho mai raccontato. Io ho spesso il difetto di dare consigli non richiesti, mi accade nella vita privata (ricordo una memorabile lavata di capo da parte della moglie di un collega prossimo al divorzio) ma mi accade anche nella vita pubblica. Se ho un'idea che ritengo buona e utile, chissà perché alzerei subito il telefono. Quell'istinto mi è venuto con D'Alema al governo, poi con Berlusconi, oggi con Salvini e Di Maio. Quella volta mi venne con Pierluigi Bersani.

Quando nel 2013 prese la sventola che prese, quando cominciava a soffiare impetuoso il vento grillino, quando farfugliava in streaming con i Cinquestelle, mi procurai il numero di cellulare e gli mandai un messaggio. "Gentile segretario, sono un cittadino moderato che in passato ha votato a sinistra ma che non lo farà mai più finché non diventerete un partito moderno e post ideologico, però siccome ci tengo a veder progredire l'Italia, e in questo momento siete voi a dare le carte, di fronte a questa batosta le chiedo: perché non dice agli elettori che ha capito davvero il messaggio di rottura? Perché non azzera la classe dirigente del suo partito? Perché non propone come premier il giovane Matteo Renzi?".

Non ho ovviamente ricevuto risposta. Bersani deve aver pensato che fossi il solito rompiballe incompetente e probabilmente ne aveva ben donde. Renzi non lo conoscevo e non lo conosco, allora mi sembrava uomo di buona volontà e di belle speranze.

Con quel suggerimento credevo che il Pd avrebbe potuto avviare una fase di modernizzazione e magari far partire un dialogo con i moderati del centrodestra dopo anni di caccia alle streghe. E pensavo che se il passaggio di consegne fosse venuto dal vecchio apparato di partito, il giovanotto avrebbe calmato la sua diffidenza e il Pd avrebbe potuto davvero imboccare una strada nuova con facce nuove. Non so come sarebbe andata, so com'è andata. E quattro anni dopo quel sms ho votato no al referendum.

Per la prima volta (e spero l'ultima) ho votato con la pancia per togliere dai piedi il presuntuoso di Rignano. Spero che Giuliano Ferrara non mi tolga il saluto per questo. Avrei votato sì soltanto se Renzi, invece di legare il destino di quelle riforme al suo destino politico, si fosse presentato agli elettori così: "Ho capito che non mi sopportate, ho capito che sono riuscito a trasmettere il peggio di me, ma siccome quella riforma vale più di Matteo Renzi e fa bene all'Italia, vi comunico in anticipo che mi dimetterò da premier comunque vada a finire, così il vostro voto sarà un sì al futuro di questo Paese e non al mio futuro. Grazie". Titoli di coda, luci in sala, applausi perfino e rivalutazione del personaggio.

Mi hanno spiegato che non funziona così la politica. Me lo avevano già spiegato gli amici quando avevo trovato una carognata dire a Enrico Letta di stare sereno per poi piantargli una coltellata alle spalle e prendere il suo posto. Anche allora mi fu detto che la politica ha le sue regole, che l'onore e la correttezza a volte risultano impolitiche. Abbozzai, eppure mi piacerebbe non fosse così.

Sabato scorso ho dunque ascoltato il discorso di Renzi alla direzione del suo partito. Da tempo ha la capacità di rendersi insopportabile anche quando ha ragione, ma ha detto alcune cose sacrosante davanti a un partito ormai schiacciato tra parrucconi e claque fiorentina. Ne ha però omesse tante altre.

Di nuovo ho immaginato una conclusione del discorso a mio modo: "Cari compagni, anch'io ho enormi responsabilità, non solo voi e la vostra guerra di retroguardia. Giuro che non volevo, eppure ho fatto un sfilza di errori lunga da qui alla mia casa in Toscana. Non ho ascoltato le critiche, ho governato gli italiani senza capirli, mi sono arroccato nel palazzo io che volevo aprirlo quel palazzo, sono stato arrogante e presuntuoso, ho gestito il potere in modo personalistico, mi ha tradito il mio carattere proprio quando ho dovuto affrontare la prova più grande della mia vita politica. Capita, agli esseri umani, ma io non me lo perdono. Chiedo scusa a voi e agli italiani tutti. Largo ai giovani. Non ai giovani renziani, ma a quelli che guardano avanti con mente aperta e nel nostro partito ci sono. Io mi ritiro".

Mi sono sciroppato tutti i quaranta minuti del suo intervento sperando che lo dicesse. Non l'ha detto. Dimostrando ancora una volta che saper stare bene sulla scena è un'arte, ma saper uscire bene di scena è un'arte ancora più grande.

raffaele.leone@mondadori.it 


(Questo articolo è stato pubblcato sul numero di Panorama in edicola il 12 luglio 2018)

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Raffaele Leone