I punti da chiarire sulla condanna a morte di Saif Gheddafi
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I punti da chiarire sulla condanna a morte di Saif Gheddafi

Resta da capire se le milizie di Zintan, dopo la sentenza, accetteranno di consegnarlo alle autorità di Tripoli

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È stato condannato in contumacia alla pena capitale Saif al-Islam Gheddafi, il secondogenito dell’ex Rais libico Muammar Gheddafi, imputato insieme ad altri 37 membri di spicco dell’entourage del Colonnello per crimini di guerra. La corte di Tripoli ha emesso la sentenza il 28 luglio. Insieme a Saif al-Islam Gheddafi, detenuto in un carcere dalle milizie di Zintan al momento del processo, è stato condannato a morte anche l’ex capo dell’intelligence libica, Abdullah al Senussi, e l’ex premier, Baghdadi al-Mahmoudi. L’accusa nei loro confronti è di aver ordinato le violente repressioni durante le rivolte del 2011.

 La sentenza appariva scontata fin dal 2011, quando il tribunale di Tripoli aveva assicurato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja (CPI) di poter eseguire in patria un processo regolare ed equo nei confronti degli uomini del clan di Gheddafi. Del caso si è però tornato a discutere nel 2014, quando l’Aja ha chiesto la consegna di Saif al-Islam Gheddafi per sottoporlo al giudizio dell’arbitrato internazionale, ritenendo inadeguato il sistema giudiziario libico.

 Oltre alle critiche che sono state sollevate riguardo le modalità di conduzione del processo (la difesa dell’ex premier Al-Mahmoudi ha denunciato, ad esempio, delle torture e un tentativo di avvelenamento subiti dal suo assistito), ha suscitato polemiche il fatto stesso che è stata la Corte di Tripoli a farsi carico della sentenza. Sebbene non vi siano dubbi circa l’implicazione dei fedelissimi del Colonnello nelle violenze registrate nei mesi della Rivoluzione del 2011, il verdetto provoca comunque dei risentimenti sullo sfondo del frammentato scenario libico e del perenne contrasto tra le istituzioni della Tripolitania e quelle della Cirenaica.

 Il 27 luglio, a un giorno dallo svolgimento del processo, Al-Mabrouk Ghraira Omran, il ministro della Giustizia del governo di Beida (riconosciuto dalla comunità internazionale), ha denunciato come illegale il processo, dichiarando che i giudici hanno svolto il loro incarico sotto minacce. Denuncia che chiaramente implica il riferimento all’illegittimità della Corte tripolina, poiché essa non opera sotto il controllo del governo della Cirenaica bensì sotto quello parallelo espressione del Congresso Nazionale Generale.

 Come riporta Libya Herald, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, Fatou Bensouda, ha invece affermato che il processo può considerarsi valido sebbene non sia stato chiarito su quali basi. Il processo è stato infatti criticato dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani a causa delle restrizioni imposte alla difesa degli imputati. Inoltre resta aperta la disputa con la CPI che in questi mesi ha continuato a chiedere di processare il figlio di Gheddafi. Il mandato di arresto nei suoi confronti – così come quello nei confronti dell’ex Rais e del suo braccio destro Al Senussi – era stato spiccato dalla Corte dell’Aja il 27 giugno 2011. Successivamente, nel luglio del 2014, il caso di Al Senussi era stato giudicato “inammissibile” davanti alla Corte, ma non quello di Saif al-Islam.

 Il cerchio della storia giudiziaria di questo caso potrebbe dunque chiudersi a Tripoli. I punti in sospeso però non mancano. A cominciare dalla consegna del condannato a morte, tuttora detenuto dalle milizie di Zintan che rispondono al governo di Beida e che finora hanno rifiutato di obbedire alle richieste della corte tripolina.

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