Ilva di Taranto: parla lo scrittore operaio Giuse Alemanno
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Ilva di Taranto: parla lo scrittore operaio Giuse Alemanno

L'autore de “Gli invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto” spiega perché i lavoratori non vogliono veder chiusa l'azienda da cui dipende il futuro di decine di migliaia di famiglie

"Ci mettiamo il naso, la pelle, la faccia nello stabilimento. Noi lì viviamo più tempo che con le nostre famiglie. E per questo vogliamo che l’ambiente dell’Ilva sia ecocompatibile. Contiamo come la popolazione di una piccola città e tutti abbiamo a cuore il rapporto tra salute e lavoro, nel rispetto della dignità dell’uomo. Non crediamo che qui si possa chiudere tutto”. Giuse Alemanno, scrittore jonico e operaio nella Ome/Mua, una grande officina del siderurgico di Taranto, pur vivendo la profonda inquietudine dei lavoratori dell’Ilva, descrive la realtà di fabbrica come una comunità alla ricerca di risposte. Dall’azienda, dalle istituzioni e dalla politica. E soprattutto smitizza ogni possibile allarme sociale in città: “Stamattina sono stato in fabbrica. Non ho visto alcuna emergenza di ordine pubblico. Noi lavoratori siamo animati da grande realismo e nutriamo la speranza che i prossimi incontri convocati dal governo a Roma possano disegnare scenari positivi”. Autore con Fulvio Colucci de “Gli invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto” (Kurumuny edizioni), in primavera porterà in scena a teatro un nuovo testo legato alla più grave crisi industriale italiana.

La letteratura spesso crea cortocircuiti inattesi con la realtà. “Acciaio” di Silvia Avallone vinse il Premio Campiello nel 2010, ora è un film nelle sale. Dal cinema alla crisi dell’Ilva il passo è breve.
La letteratura a volte, indagando sulla vita, riesce ad anticipare gli avvenimenti. E’ una strana ironia, probabilmente le istituzioni dovrebbero dare maggior credito alle sensibilità artistiche, intese come antenne che percepiscono prima di altri i cambiamenti e le evoluzioni di ciò che ci accade intorno. Chi vive nell’area jonica non può non essere sensibile a quello che accade nell’Ilva.

La vita quotidiana fuori dal romanzo…
Stamattina anche il mio badge Ilva, come quello dei colleghi, è stato disattivato. Spero che lo ripristino presto non si può andare avanti così.
Dalla prima inchiesta del luglio scorso a oggi che atmosfera c’è stata in fabbrica?
Sapevamo che la situazione era compromessa, ma non ci aspettavamo la svolta così drastica che ha portato alla chiusura. Dal primo sequestro disposto dalla magistratura è successo di tutto: scioperi, cortei e presidi hanno avuto tante sfaccettature. Alcune manifestazioni sono state ancillari alle volontà aziendali, altre meno. C’è stata armonia tra la maggior parte dei lavoratori, altre volte il clima si è fatto rovente. Le cronache degli eventi hanno avuto un flusso molto disordinato.

La magistratura ha dettato i tempi a una politica incapace di trovare una nuova sintesi tra lavoro e salute?
Difficile rispondere. Gli inquirenti perseguono i reati. Le indagini, dice il procuratore Franco Sebastio, non sono terminate. La magistratura non è una bomba ad orologeria, ma interviene quando ci sono reati facendo il proprio la lavoro.
E la politica?
Sarebbe stato auspicabile che intervenisse, ma molti politici adesso sono soggetti a provvedimenti giudiziari dell’inchiesta. Resta quindi una speranza vaga…
Quale rapporto si innesta sul territorio tra popolo e fabbrica che inquina ma che dà anche lavoro?
Fabbrica e lavoratori sono interconnessi, complementari. Gli operai a Taranto al di là dell’Ilva hanno ben poco. Non esisterebbero l’Ilva senza gli operai o gli operai senza l’Ilva. Questo rapporto ha ammorbidito gli operai nei confronti della fabbrica. Tutti noi abbiamo contezza che oltre il siderurgico c’è ben poco nel nostro territorio.

C’è meno conflittualità?
Non c’è la cultura della lotta contro il padrone né la sindacalizzazione veemente né la consapevolezza politica di classe. Gli operai rispecchiano la tendenza italiana, tra l’allontanamento della politica e un accordo silente con quello che passa il convento.
Gli operai della loro azienda che pensano?
Non hanno di sicuro in odio il proprio posto di lavoro.
Esiste la contrapposizione tra guelfi e ghibellini in città, tra chi vuole chiudere la fabbrica e chi la difende?
Non mi piace questo schema. Nessun lavoratore vuole chiudere lo stabilimento. Tutti vorrebbero un salario sicuro in un ambiente sicuro. Stiamo piangendo ancora un giovane di 29 anni morto due mesi fa in fabbrica. La salute è un diritto sacrosanto. E noi siamo i più esposti.

Cosa sarebbero Taranto e gli altri centri industriali italiani senza siderurgia?
Ben poca cosa. La città jonica non deve e non può abbandonare la tradizione industriale che la caratterizza dall’inizio del novecento, ma all’interno delle regole, secondo leggi che portano all’ambientalizzazione della produzione.
A chi si deve la responsabilità di zone industriali italiane con ciminiere che le fanno sembrare città inglesi all’inizio dell’industralizzazione dell’800?
La storia di Italsider e Ilva ha oltre 50 anni. I politici di allora, se avessero potuto, avrebbero edificato lo stabilimento nel centro di Taranto, tanta era la disperazione per la mancanza di possibilità occupazionali e la povertà. Allora non c’era la sensibilità ambientale ed ecologica, ma la priorità era la lotta alla disoccupazione. Per questo è indispensabile che lo stabilimento si metta in regola negli standard di produzione previsti dalla legge.

Gli operai sono stati i grandi dimenticati in Italia negli ultimi anni?
Nel mio libro, fin dal titolo, li definisco “gli invisibili”. Per lungo tempo sono stati marziani, mentre in questi mesi sono di forza tornati al centro del dibattito pubblico.

Quanto sono politicizzati?
La coscienza di classe è stata disinnescata dal contesto dell’ultimo ventennio italiano. I lavoratori dell’Ilva hanno la media d’età più bassa di tutti gli stabilimenti affini nel mondo. Sono per la maggior parte trentenni, nel siderurgico già da oltre un decennio, totalmente spoliticizzati. Ma nell’urgenza della crisi industriale c’è un ritorno alla partecipazione politica. In maniera “protozoica”.
E i sindacati?
Sono indispensabili alla realtà operaia, ma dovrebbero sottoporsi ad una severa autocritica per tornare a essere credibili davanti ai lavoratori.
Nelle presentazioni del libro, ci sono aneddoti legati alla memoria operaia che meritano di essere ricordati per spiegare l’attuale dramma di Taranto?
Sono state esperienze molto forti. Tanti lavoratori che sono venuti a testimoniare la loro vicinanza allo stabilimento e il loro affetto per il lavoro che avevano e hanno. A Taranto, a Galatone nel Salento come a Ravenna o a Ostia. Raccontavano il lavoro come emozione.
La città può diventare una polveriera per crisi?
Non c’è calma, ma nemmeno un pericolo sociale. Si aspetta con fiducia e perplessità il prossimo incontro di giovedì. Sperando che tutto possa risolversi e sia tracciata una strada per sbloccare l’impasse nello stabilimento. Una soluzione si deve trovare. Nessuno di noi crede che l’Ilva possa chiudere.

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Michele De Feudis