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L’Europa cerca di dare un senso alla parola Unione, ma è ostaggio delle parole

Ma quando i capi dei governi decideranno di parlare di meno e lavorare di più? Non passa giorno senza che la dichiarazione di un capo di stato, di un ministro o di un banchiere centrale scateni il finimondo sui mercati. A volte mi chiedo se non lo facciano apposta.
Margherita Gennaro, Milano

E allora cominciamo dalle parole. Da tempo, saranno oramai almeno tre anni, la parola è diventata creazione. La parola crea disordine, causa disastri finanziari perché si fa denaro, determina difficoltà, genera crisi. La parola – una qualsiasi parola pronunciata da Angela Merkel o dal portavoce di una agenzia di rating – è diventata un fatto politico e ha immediate conseguenze sull’economia. Non importa ciò che è reale (i fondamentali di uno stato) ma ciò che viene detto. Questo perché difetta in questo avvio di secolo la legittimazione politica, s’è smarrita la forza di una vera leadership europea: la politica delle nazioni e degli egoismi nazionalistici ha prodotto i fantasmi di oggi. La conseguenza è che la parola non costruisce ma, al contrario, causa scontri. Addirittura guerre, combattute non più con i carri armati ma con la forza persino apocalittica delle parole. Fate caso al portato biblico che, in questa crisi, hanno assunto le definizioni. Già in Germania identificano il debito (Schuld) con la «colpa», ma è nelle misure di cui tanto si discute oggi che si coglie l’approccio evangelico. Due esempi. Il possibile e solo ipotetico fondo per ripianare il debito pubblico (che sappiamo già essere una «colpa» per i tedeschi) è battezzato «redemption fund», che da noi viene ovviamente tradotto come «fondo di redenzione», cioè la via obbligata per mondarsi dalla lebbra della spesa irresponsabile. E d’altronde: i paesi in difficoltà, messi alle corde dalla crisi, come ultima speranza per non fallire devono appellarsi alla misericordia di un «fondo salvastati» e sperare di preservare l’anima con la clemenza di chi guida l’Unione Europea.

La gestione di questa crisi è allucinante. Ho solo una domanda: dov’è l’Europa?
Giuseppe Guido, Genova

L’Europa cerca (e non ha ancora trovato) la sua identità. Tutte le misure decise in questo tempo di emergenza dispiegheranno i loro effetti non nell’immediato; anzi, ci vorranno anni. Il tempo gioca contro l’Europa e a favore degli speculatori: sappiamo per averlo provato sulle nostre tasche che il primo nemico di questa crisi è l’inazione, l’incapacità di agire. In questo l’Europa paga con gli interessi il prezzo dell’egoismo. Ma ciò che oggi appare finalmente chiaro a tutti, con la solita eccezione della riottosa Germania, è che viviamo una fase storica in cui dobbiamo alienare parte dell’indipendenza per rassegnarci all’interdipendenza. Di fatto il primo articolo della nostra Costituzione che vincola la sovranità alla volontà del popolo italiano dovrà mutare: parte di questa sovranità sarà trasferita, o meglio condivisa con organismi comunitari. Gli stessi che avranno precedenza e inappellabilità di giudizio, prima del nostro Parlamento (a questo punto non più sovrano), nel caso in cui si dovessero sforare i paletti del bilancio. Quando all’alba di martedì 26 giugno è arrivato nei palazzi del potere dei 27 paesi dell’Unione il piano di sette pagine su carta intestata del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, è stato chiaro che l’Europa è giunta a un bivio. È quello che ha ripetuto diplomaticamente ai suoi interlocutori Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea che è diventato l’attore principale di questa delicatissima fase. Il tentativo è quello di dare un senso alla parola Unione completando quella monetaria con la posa di quattro mattoni (su politiche di bilancio, fiscali, economiche e bancarie) dove il collante è sempre la stessa parola: Unione, appunto. Tutto nobile e bello, con un piccolo particolare: i tempi. Un primo rapporto sarà presentato a ottobre, un secondo a dicembre. Ciò non vuol dire che le misure saranno attive dal 1° gennaio 2013, nessuno anzi può al momento indicare una data effettiva per il varo. L’inossidabile Merkel ha addirittura fatto sapere di ritenere «troppo rapida» la condivisione sui debiti. Stiamo freschi: con Lady spread scatenata, l’economia in recessione, la Grecia allo stremo, la Spagna alle corde e l’Italia già indicata come prossima vittima, come la mettiamo? Non bisognava fare presto, anzi prestissimo, Frau Merkel? In questo senso non basta sperare che il fondo Ue per la gestione delle crisi sia operativo «entro la fine del 2012». Perché stavolta il singhiozzo dell’Europa rischia di soffocare non solo l’Italia, ma di essere letale anche per l’euro.

Non capisco perché le elezioni siano ritenute una bestemmia. In democrazia dovrebbero essere un toccasana. In Grecia hanno fatto la campagna elettorale e hanno votato già due volte.
Giovanni B., Pesaro

Siamo ai fatti di casa nostra. Dalle parti del Quirinale non c’è alcuna volontà di dare seguito a richieste di indire elezioni prima del maggio 2013 (anche se venissero caldeggiate da settori del Pdl nel caso di un «fallimento» del vertice di Bruxelles). Altro che moral suasion: Giorgio Napolitano è fermamente contrario a qualsiasi ipotesi di ritorno alle urne perché esporrebbe il Paese al pericolo di rimanere indifeso (in balia di spread e speculatori) senza un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare. Ma se non dovessero bastare i fortissimi richiami al senso di responsabilità e al superiore bene del Paese, Napolitano ha già in serbo altre motivazioni. La prima consente di non esplorare altre subordinate, legate per esempio al calendario (per votare a ottobre bisogna sciogliere le Camere entro fine luglio): c’è la necessità di mandare in soffitta il Porcellum, principio condiviso e ribadito da tutte le forze politiche. Il cammino della riforma elettorale è tutt’altro che definito, ragion per cui al Quirinale non si dannano l’anima. Guadagnare tempo, in fondo, va bene ai due maggiori «azionisti» del governo, Pd e Pdl, sempre alle prese con gli stessi nodi: leadership e alleanze.  

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