Jobs Act: ecco perché anche il Senato dirà sì
ANSA / MAURIZIO BRAMBATTI
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Jobs Act: ecco perché anche il Senato dirà sì

Con il voto di fiducia i dissidenti dem dovranno votare a favore per non far cadere il governo

Ricapitoliamo per un momento alcuni numeri. Martedì scorso il Jobs Act è passato alla Camera con 316 voti a favore (il minimo, è vero) e 6 contrari. Ma senza bisogno di voto di fiducia. I deputati Pd che hanno lasciato l'Aula e messo nero su bianco le ragioni del loro dissenso sono stati 29. 7 erano assenti giustificati o in missione. I no (da parte dem) sono stati 2, 2 anche gli astenuti. Quindi su un centinaio di deputati accreditati alla minoranza, a opporsi alla legge delega sul lavoro, pur senza bocciarla nettamente con un voto contrario - e tra mettersi assenti e dire chiarmente “no” qualche differenza c'è - alla fine sono stati giusto una trentina. La loro iniziativa ha causato sì scompiglio e disturbo, ma ha mancato il principale obbiettivo: bloccare la riforma. Con l'effetto collaterale (e non previsto) di spaccare il fronte interno anti-renziano come dimostrano anche le accuse via Facebook tra Gianni Cuperlo e Matteo Orfini.

Il prossimo passaggio

Il 2 dicembre il Jobs Act torna in Senato dove la maggioranza ha sicuramente numeri meno solidi che alla Camera. Lo scorso ottobre, nel primo passaggio a Palazzo Madama, i sì alla fiducia furono 165. Dopo giorni e giorni di infuocate polemiche e critiche, anche sulla presunta incostituzionalità del testo, i piddini che votarono “no” furono solo 3: Felice Casson, Corradino Mineo e Lucrezia Ricchiuti. I restanti ribelli alla fine diedero il loro appoggio. Ora la minoranza dem intende dare di nuovo battaglia. Ma di nuovo verrà posta la fiducia. Per questo il Jobs Act sarà approvato anche in Senato: perché anche i dissidenti dovranno votarla se non vogliono far cadere il governo (alla camera questo rischio non c'era). E nessuna delle forze politiche in campo, esclusa la Lega, può permettersi di andare al voto in questo momento. Senza legge elettorale, con la legge Stabilità da approvare e con un Capo dello Stato prossimo alle dimissioni non converrebbe a nessuno.

Non a Silvio Berlusconi, alle prese con un'agibilità politica ridotta, la ribellione dei fittiani, il deludente risultato ottenuto da Forza Italia alle regionali in Emilia Romagna e Calabria e la necessità di conservare il suo rapporto privilegiato con il premier sulle scelte che contano davvero. A iniziare da quella del prossimo capo dello Stato. Non ad Angelino Alfano, elettoralmente ancora troppo debole e determinato ad autoescludersi da un'eventuale alleanza con Forza Italia qualora Berlusconi decidesse di unirsi alla Lega di Salvini. Non al M5S con un Beppe Grillo non pervenuto ormai da diverse settimane. E nemmeno agli anti-renziani, a rischio esclusione dal prossimo Parlamento. E non solo come deputati e senatori dem. 

La sinistra radicale

Il voto di domenica in Emilia Romagna non ha colpito infatti solo il Pd con il tasso record di astensionismo, ma anche la cosiddetta sinistra radicale, da Sel alla Lista Tsipras a Rifondazione che ha perso, rispetto alle Europee, l'11% di consensi e il 13,6 rispetto alle Regionali del 2010. E questo nonostante l'Emilia sia la regione con il più alto numero di tessere Cgil (oltre 820mila) e la terra di Maurizio Landini. Inoltre quella “sinistra” che i dissidenti del Pd intenderebbero far risorgere ad ora non ha un programma che vada oltre il no a quello degli altri e, a meno che Landini non decida di scendere in campo, nemmeno un leader in grado di attrarre consenso e soprattutto voti.

Gianni Cuperlo è entrato in Parlamento con il listino bloccato di Bersani e alle primarie del 2013 per la scelta del segretario nazionale del Pd ha preso il 18% contro il 68 di Renzi. 510.970 voti contro 1.895.332 del vincitore. Pippo Civati si classificò addirittura terzo con il 14,2% e circa 400mila preferenze. Alle parlamentarie di un anno prima risultò il più votato sì, ma della circoscrizione di Monza e Brianza, 5.500 voti. Stefano Fassina ne ottenne 11mila. A Roma. Con primarie aperte a tutti, iscritti e no. Basterebbero a garantire loro un futuro parlamentare fuori dal Pd?

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Claudia Daconto