L'Onu si sbaglia. l'Italia è il paese della felicità
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L'Onu si sbaglia. l'Italia è il paese della felicità

Secondo una ricerca dell'Onu saremmo al 45° posto nella classifica della felicità. Ma nessuno sa godersi la vita come noi, nel bene e soprattutto nel male

Ci ho dovuto riflettere per un po’ e ancora non me ne capacito. L’Italia, il Belpaese, il paese della vita easy, facile, del sole e dei limoni, è crollato dal ventottesimo al quarantacinquesimo posto nella classifica della felicità umana stilata dagli esperti delle Nazioni Unite , il trio che allegramente campeggia sul frontespizio del Rapporto mondiale sulla felicità del 2013: John Helliwell, Richard Layard e Jeffrey Sachs, professori alla Columbia University, British Columbia University e London School of Economics. 

Questi professoroni vorrebbero farci credere che davvero in cima alla loro classifica ci siano Danimarca, Norvegia, Svizzera, Olanda e Svezia. Paesi senza sole (a parte forse la Svizzera), paesi di nebbie spugnose e piogge fitte e costanti. Altri paesi più ridenti del nostro - Venezuela, Colombia, Cile, Arabia Saudita, Messico e Uruguay - garantirebbero ai loro cittadini una “felicità interna pro capite” e una complessiva “felicità interna lorda” o Fil (in inglese Gross National happiness,Gnh) più elevate che da noi. Ci voleva proprio una testa d’uovo cresciuta a pane e collegio come Sachs, consigliere speciale del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, per farci retrocedere nella foto di gruppo dell’umanità, nel triennio 2010-2012, di diciassette posizioni. Ma si lascino dire, questi soloni della psicologia sociale applicata alla statistica, dell’economia e dei sondaggi autori del Rapporto, che si sarebbero dovuti almeno abbassare a indagare sul campo, a percorrere lo Stivale, a calzarlo e calarsi nel mood, nello spirito della nostra spensierata incoscienza italiota, un gradino sopra quella latina dei paesi sudamericani a ridosso dei super-ricchi calvinisti del Nord Europa. 

La verità? Gli unici paesi davvero più felici del nostro sono quelli nei quali si vive in infradito nella sabbia calda dieci mesi l’anno, cullati dal fragore delle onde. Atolli lontani. Scenari caraibici. Chioschi da sogno. Una vita on the rocks. Comunità dai nomi improbabili, cinematografici. Per il resto lasciatevi servire, cari Helliwell, Layard e Sachs, il nostro menefreghismo ci aiuta a scalare tutte le classifiche.

A sorridere del traffico che ci asfissia, delle cartelle fiscali che ci deliziano i weekend, della ricchezza confusa di leggi e cavilli che movimentano la nostra vita costringendoci a aggirarli. A ridere, ancora, del senso di comunità solidale che ci spinge a contribuire al benessere dei nostri ragazzi dotando le scuole di saponi e carta igienica per i quali lo Stato non ha soldi.

A sorridere del meccanismo di distribuzione di cariche e prebende sulla base di appartenenze familistico-politiche (una delle domande alle quali i soloni dell’Onu hanno risposto in relazione ai singoli paesi è se vi sia qualcuno della famiglia pronto ad aiutarti, e qui da noi c’è eccome, la famiglia è il nostro vero “merito”).

Ce ne sbattiamo degli esami, dei concorsi e delle gare d’appalto, dei test d’accesso e degli avanzamenti sul lavoro: la nostra felicità sta nella serenità con la quale ci affidiamo ad amici e parenti, alla raccomandazione slegata dal sacrificio personale. Siamo una grande, esilarante famiglia. 

In un certo senso, siamo felici perché poche cose dipendono dall’impegno che ciascuno sa profondere e tutto ci piove addosso dal cielo sotto forma di immeritata elargizione. E se poi malauguratamente qualcuno resta tagliato fuori, può sempre tornare da mamma e papà. Un altro bel divertimento.

Il paese crolla e noi sappiamo restare in piedi, ignari, come sulla tolda del Titanic. Continuiamo a suonare il violino, ci affidiamo al nostra canto di cicale, spegniamo le nostre ansie nel piagnisteo scenografico privo di conseguenze, riformiamo il nostro modus vivendi a parole, in un torrente di chiacchiere che ci lasciano l’illusione di aver fatto quel che non avremo mai la volontà di fare. Viviamo al di sopra delle nostre possibilità e anche per questo siamo felici. Diamo tempo al tempo, anche se non ce n’è più.

Abbiamo il dono di accontentarci e siamo abituati a considerare normale una strada bucherellata come una groviera o un processo civile che dura vent’anni per un risarcimento che non avremo mai. L’irresponsabilità è la nostra inimitabile forma di felicità che sfugge a ogni statistica. E basta che parliamo di calcio o di sesso, e torniamo giulivi come bambini. 

Checché ne dica Sachs, noi italiani siamo i numeri uno della felicità.       

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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