Israele-Palestina: il diritto e la guerra
EPA/ABED AL HASHLAMOUN
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Israele-Palestina: il diritto e la guerra

La tensione nei territori è già alle stelle, serve calma ed il rispetto delle regole base della giustizia. Da entrambe le parti

Il sangue degli adolescenti. Ebrei e palestinesi. L’odio dei padri.

Dietro gli orrori e i dilemmi etici di queste ore in Israele e nei Territori c’è un binomio, un dilemma, che spicca. Che accompagna tutti i conflitti: il diritto e la guerra. Quando si combatte, quando l’odio non si tiene più e i popoli entrano nella spirale delle vendette, nell’orbita feroce dei reciproci nazionalismi, diventa quasi impossibile riuscire a conservare il rispetto delle regole. Il miracolo sta in questo equilibrio tra i diritti e il sangue. Gli eroi sono quelli che, nonostante tutto, continuano a fare coscienziosamente il loro lavoro: poliziotti, giudici, medici, infermieri. Ricordo durante la guerra di Croazia che sotto le bombe serbe la polizia stradale continuava a multare con l’autovelox gli eccessi di velocità. A staccare contravvenzioni per chi non allacciava la cintura di sicurezza. 

In Israele, oggi, si gioca una partita fondamentale sulla correttezza delle indagini criminali. È dal normale funzionamento della democrazia che dipende il futuro. Il primato di Israele in Medio Oriente discende infatti dalla capacità di tutelare la libertà e la legge. L’atroce assassinio del 16enne palestinese Mohammed Abu Khdeir, rapito e trascinato dentro un’automobile nera, colpito alla testa e bruciato vivo, non può e non deve restare impunito. Tutte le piste sono aperte, aveva detto la polizia dopo il ritrovamento del corpo. È possibile credere a investigatori israeliani in un caso nel quale con tutta probabilità la matrice è nazionale? La famiglia di Mohammed dice di no. E scende in piazza.

È sceso in piazza anche il cugino di Mohammed, Tariq, 15 anni, cittadino americano, picchiato dai poliziotti e condannato a nove giorni di arresti domiciliari. Si sono diffuse voci di ogni tipo sull’omicidio di Mohammed, non esclusa la faida familiare. La domanda è: il crimine è stato progettato all’interno della comunità palestinese? Si tratta cioè di un honor killing, un delitto per togliere la vergogna alla famiglia, magari per comportamenti giudicati sbagliati? Ma no. È la stessa polizia israeliana a puntare sugli ambienti dell’estremismo ebraico, ad additare il movente “nazionalista”. 

Il presidente dell’Autorità palestinese e leader di Fatah, Abu Mazen, aveva condannato l’assassinio dei tre ragazzi figli di coloni israeliani nei giorni scorsi. E ha subito attribuito l’omicidio del ragazzo palestinese a estremisti ebrei. Abbiamo tutti visto in tv le immagini di combattenti palestinesi  dal volto coperto che giurano di lavare col sangue il sangue di Mohammed. E hanno il supporto della popolazione.

Su Facebook, tre militari israeliani hanno pure loro minacciato vendette sanguinose. Risultato: sono stati deferiti alla Corte marziale e condannati a cinque anni di galera. Israele ha un solo modo per sopravvivere: la forza della legge, la democrazia, la punizione dei criminali chiunque siano. Solo così potrà rivendicare il buon diritto a sopravvivere, a contrapporsi in armi al linguaggio della forza cieca che tempesta di razzi le cittadine israeliane. Soltanto così potrà opporre la sicurezza di una società che non retrocede dai suoi valori, anche a costo di dover ammettere la propria fragilità e la follia criminale delle sue frange deteriori.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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