Islamisti all'italiana
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Islamisti all'italiana

Sarebbero molti i giovani italiani convertiti che hanno scelto di combattere, come Giuliano Delnevo, in Medioriente. Vivono in mezzo a noi ma noi non li conosciamo

 

Irrompe come una burrasca a ciel sereno, come un acuto nel mezzo di una pastorale la strana storia di Giuliano Delnevo, 20 anni, di padre cattolico praticante, caduto sul fronte siriano col Kalashnikov in mano e il corano nella tasca dello zaino. Barba lunga, camice lungo, lungo corteggiamento della morte com’è nella tradizione dei puri combattenti del Jihad. Morto per l’Islam mentre guardava il paradiso “nel mirino della sua canna di fucile”, per dirla con le parole di un generale russo ai tempi della disfatta dell’Armata Rossa in Afghanistan. A molti parrà una storia dell’assurdo, una stecca imprevedibile, un corpo estraneo rispetto al tessuto sociale di questa Italia che non conosce se stessa. Ma non è così. L’Italia, appunto, non conosce se stessa. Non conosce l’Europa di cui fa parte. 

Giuliano, intanto, non è solo lui. Con lui sarebbero partiti a decine, non solo dalla Liguria diventata Liguristan. In ogni guerra ci sono stati italiani prestati alle milizie internazionali, un assaggio l’abbiamo avuto nella ex Jugoslavia che per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale ci ha messi di fronte nel cuore dell’Europa a un conflitto etno-religioso (per quanto cavalcato da vecchi politici spregiudicati innamorati del Potere). C’illudevamo forse che la guerra conclamata l’11 settembre di dodici anni fa potesse limitarsi a un braccio di ferro sanguinoso tra l’America e l’Islam dell’integralismo alqaedista. Tra Bush/Obama e Osama. Invece no. Dopo gli attentati in Spagna e Gran Bretagna con morti e feriti, edizioni ridotte ma sempre terribili dell’11/9, il terrorismo si è sminuzzato, disseminato, è diventato un brillare esplosivo di singoli menti abbacinate dall’odio e da una prospettiva di redenzione coranica. Singoli o singoli gruppi che si sono formati su Internet hanno sposato l’Islam, l’hanno condito di un’identità che riempiva di senso un deserto forse esistenziale, e nell’euforia fredda della purezza ritrovata hanno imboccato la strada verso “grandi imprese”. Grandi per modo di dire: la decapitazione di un soldato in borghese in un sobborgo di Londra, l’accoltellamento di un francese nei quartieri moderni di Parigi. E la missione intrinsecamente suicida di Giuliano che snocciola su facebook le sue declamazioni islamiste in arabo dopo aver conosciuto la giusta via grazie (anche qui si fa per dire) all’amicizia con un manipolo di giovani immigrati conosciuti ad Ancona.

Si tratta quasi sempre di convertiti. E anche questo fa pensare. L’Italia è Europa. Non siamo immuni. Il padre di Giuliano (la storia l’ha scoperta “Il Giornale”, scoop mondiale, l’intervista al padre l’ha fatta “Repubblica”) spiega la conversione del figlio con la sua difficoltà di trovare lavoro. Un’esemplificazione, più che una spiegazione. Denota un’incapacità di capire. Comunque, non spiega tutto. La madre sarebbe andata fino in Medio Oriente per riacciuffare quel figlio in pericolo. Lei aveva capito.

Giuliano è morto combattendo una guerra tra arabi o tra islamici. Una guerra lontana che in realtà è molto più vicina di quanto noi possiamo immaginare. La storia di Giuliano, a prima vista così assurda, appartiene al racconto della Storia. Guai circoscriverla a una peripezia da manicomio.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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