Sri lanka attentato Isis
ANSA/AP Photo/Chamila Karunarathne
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Isis, il terrorismo oltre lo Sri Lanka

Con la sconfitta in Siria la strategia dell'Isis è cambiata; ora si cercano piccoli gruppi di estremisti, ricchi ed istruiti

C’è l’orrore e c’è anche la propaganda. Gli attentati contro le chiese cristiane e gli hotel di lusso dello Sri Lanka, che hanno fatto oltre 250 morti e centinaia di feriti nella domenica di Pasqua, sono un salto di qualità nel terrorismo nella regione e segnano il consolidamento di un fronte del terrore globale dopo la sconfitta dell’Isis in Siria e Iraq. Dal Paese asiatico, secondo l’intelligence, in questi anni sarebbero partiti e rientrati una quarantina di foreign fighters; proprio loro sarebbero stati il collegamento tra lo Stato Islamico e il piccolo gruppo locale National Thowheeth Jama’ath. Oltre a questo, la propaganda nascosta nell’oscurità di internet, tra i vari social media e il Deep web, ha facilitato la radicalizzazione del gruppo, nato come autodifesa per gli attacchi subiti dagli estremisti buddisti del Bodu Bala Sena (Bbs) attivi nel Paese.

«L’Isis, cercando di raggrupparsi, si sta insediando con successo tra piccoli gruppi che finora lottavano su base locale, spesso difendendo la loro religione da attacchi esterni, sia da parte dello Stato, sia da parte di altri gruppi etno-religiosi» spiega a Panorama Zach Abuza, professore al National War College di Washington ed esperto dell’area. «Unendosi allo Stato Islamico ricevono sostegno e competenze tecniche. Spostano i loro obiettivi, amplificano le azioni e hanno la sensazione di lottare per qualcosa di molto più grande».

È chiaro che la strategia dell’Isis, con la perdita di territorio in Medio Oriente, sia cambiata. Sempre alla ricerca di nuove linee di fuoco dove combattere la propria e folle «guerra santa», lo Stato islamico sta puntando molto in questa parte di mondo, dove ha trovato terreno fertile anche grazie al gran numero di persone di fede musulmana e di conflitti locali mai del tutto conclusi. Non è un caso che negli ultimi anni molti gruppi si siano affiliati ai tagliagole del Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, radicandosi e compiendo attentati in Asia. In particolar modo colpendo i cristiani e chiunque venga considerato infedele. Attacchi che hanno fatto crescere la popolarità di queste organizzazioni nell’area, calamitando nuovi adepti.

Un episodio eclatante. Il 27 gennaio scorso, durante la celebrazione della messa nella cattedrale della città di Jolo, nel sud delle Filippine (teatro da decenni di una guerra per l’autonomia da Manila)un’esplosione di due ordigni artigianali ha ucciso una ventina di persone e provocato il ferimento di più di 80. La strage dei fedeli è stata opera degli jihadisti di Abu Sayyaf, un gruppo locale che prima si ispirava ad Al Qaida e negli ultimi anni, dopo i successi in Medio Oriente, ha giurato fedeltà all’Isis. L’organizzazione, da tempo nella black list degli Stati Uniti e del governo filippino, si è macchiata di decine di attentati, decapitazioni e sequestri di persona, tra cui il rapimento dell’italiano Rolando Del Torchio, rimasto prigioniero degli islamisti per sei mesi.

Abu Sayyaf, insieme al Maute, gruppo filippino affiliato alle bandiere nere, nel maggio del 2017, con l’intento di instaurare il primo Califfato del Sud-Est asiatico, ha poi assediato Marawi, sempre nel Sud del Paese. Le truppe governative sono riuscite a liberarla dopo quasi cinque mesi di durissimi combattimenti, più di mille morti, 400 mila sfollati e la completa distruzione della città. Ancora oggi deserta. «La battaglia di Marawi è stata un punto di svolta per lo Stato islamico in Asia: anche se alla fine sono stati sconfitti sul campo, hanno tenuto sotto scacco per mesi un potere statale che aveva il sostegno attivo di Stati Uniti, Singapore e Australia» afferma Abuza. «Mentre perdevano territorio in Siria e Iraq, si stavano aprendo su altri fronti. È stata la loro vittoria più grande a livello propagandistico».

Anche in Indonesia nel mirino degli jihadisti ci sono i cristiani. Il 13 il 14 maggio 2018 due famiglie militanti di Jamaah Ansharud Daulah (Jad), un’organizzazione che ha giurato fedeltà all’Isis nel 2015, si sono fatte esplodere, colpendo tre chiese e due stazioni di polizia a Surabaya, la seconda città più popolosa del Paese. L’attacco ha causato la morte di 27 persone, compresi 13 attentatori, e decine di feriti. È stato uno dei più gravi episodi terroristici in Indonesia degli ultimi vent’anni, dopo quello di Bali nel 2002, che ha fatto oltre 200 vittime. Il Distaccamento 88, l’élite dell’antiterrorismo, nell’ultimo periodo ha aumentato i controlli. Soprattutto per monitorare il possibile rientro in Indonesia dei miliziani andati a combattere in Medio Oriente, considerati un elemento chiave per nuovi attacchi.

Anche se in questo caso i cristiani non c’entrano, c’è poi l’incognita Thailandia. Lontano dalle rotte turistiche, al confine con la Malesia, l’etnia musulmana dei Malay rivendica l’autonomia da Bangkok. Lo fa con attentati e attacchi armati, ormai da decenni. La guerriglia separatista è divisa in vari gruppi e ognuno opera autonomamente. Le violenze, soprattutto contro le autorità e la maggioranza buddhista, hanno provocato più di 7 mila morti. E se è vero che non si hanno notizie concrete su possibili collegamenti con gruppi legati all’Isis, non si possono escludere contatti nell’ultimo periodo. Nel dicembre del 2016, poco prima di alcuni attentati - mai rivendicati - in diverse zone del sud, infatti, i servizi segreti di Mosca avevano riferito ai loro omologhi thai che almeno dieci miliziani siriani erano entrati nel Paese con lo scopo di compiere attacchi.

Nella crescita della violenza islamista nella regione troviamo anche il Bangladesh. Il primo luglio 2016, un commando ha attaccato il ristorante Holey Artisan Bakery a Gulshan, la zona diplomatica di Dacca, uccidendo 23 persone. Tra loro anche nove cittadini italiani. Un attentato che ha molte similitudini con quello avvenuto in Sri Lanka. L’organizzazione Jamaat ul Mujahidee, infatti, accusata di aver organizzato l’attacco, fino a quel momento era semi sconosciuta, proprio come il National Thowheeth Jama’ath. Inoltre i profili degli attentatori sono simili: giovani ricchi e istruiti, che hanno studiato all’estero.

Un cambio di rotta su cui riflettere. Se in precedenza si era abituati a pensare che chi si arruolava nelle file degli jihadisti era povero, radicalizzato nelle scuole coraniche e lo faceva non vedendo un futuro, questi due stragi portano verso una strada diversa, più imprevedibile. Perchè i terroristi si potrebbero trovare ovunque, in qualsiasi ambiente e ceto. «E con il ritorno in patria dei foreign fighters e l’esposizione di figure carismatiche, il rischio di nuovi attacchi in Asia è ancora più alto» avverte il professore Abuza.

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