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Isis e Khorosan: che cosa rischia l'Italia

Le operazioni militari degli Usa in Medioriente stanno scatenando una spirale di odio. Che potrebbe coinvolgere il nostro Paese

Per Lookout news

Si chiede oggi Peter Bergen, direttore di New America e analista di sicurezza nazionale per la CNN: quale presidente degli Stati Uniti ha autorizzato guerre di vario genere in ben sette Paesi musulmani? Risposta: Barack Hussein Obama, nessun altro. I Paesi musulmani colpiti dalle forze americane sotto la sua Amministrazione? Libia, Somalia, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria. Che cosa si aspettava che accadesse dopo? Che scoppiasse la pace? Sembra chiedersi l’opinionista. Proviamo a rispondere, e a includere poi anche l’Italia nel discorso generale.

L’avvocato di Chicago e premio Nobel per la pace, non avrebbe mai creduto di dover entrare in guerra. La sua presidenza doveva essere caratterizzata da altre battaglie: per i diritti, per il welfare e la sanità. Tutte cose che oltreoceano interessano poco. Ma che per i cittadini americani erano e restano di primaria importanza. Ben più del Califfato Islamico, di Abu Bakr Al Baghdadi e di Bashar Al Assad, per dire. Eppure, le cose sono andate molto diversamente. All’inizio della sua presidenza, nel giugno del 2009, Obama tenne un discorso al Cairo, capitale d’Egitto, che si annunciava come un “reset” nel rapporto con il mondo islamico. Un’apertura diplomatica che pareva confermata dalla distensione con Teheran, dall’annuncio del ritiro dall’Afghanistan e dai buoni auspici per un Islam democratico, nei giorni delle primavere arabe.

Tutto è stato però cancellato in fretta da una sequenza di azioni che stanno conducendo il rapporto tra Occidente e Islam verso una spirale di odio e un clima di ostilità che non si arresterà a breve. Anzi, secondo il generale William Mayville, direttore delle operazioni del Joint Chief of Staff (un organo che riunisce i capi di stato maggiore di ciascun ramo delle forze armate statunitensi, ndr), “potrebbe durare anni”.

La guerra al terrore si poteva evitare

Da qui, la rassegnazione della Casa Bianca a continuare la “guerra al terrore” che fu iniziata sotto i peggiori auspici durante la presidenza di George W. Bush e che la presidenza Obama sembrò voler cancellare. Invece, le “killing machines” del nuovo presidente (i droni) hanno colpito Somalia, Yemen, Pakistan e Afghanistan, seminando morte e rinfocolando l’odio nei confronti degli USA. Poi c’è stato il pessimo lavoro in Libia, dove oggi una larga parte del Paese è in mano a milizie islamiche e l’instabilità politica lo rende ben più pericoloso di prima. Quindi, l’Iraq del Nord è finito in mano ai miliziani sunniti dello Stato Islamico. E ora è caduto anche il tabù siriano. Con conseguenze imprevedibili.

Obama aveva l’opportunità storica di coinvolgere la Russia nella partita mediorientale, con il doppio risultato di migliorare le relazioni internazionali tra Washington e Mosca e trovare una soluzione forte e condivisa che scongiurasse un coinvolgimento militare diretto dell’Occidente in quella regione, con tutte le conseguenze del caso. Invece, il presidente USA ha gettato al vento quell’opportunità e ha preferito fare di testa propria. Inimicandosi Mosca, unico interlocutore forte in Medio Oriente (soprattutto in Siria), ha scontentato l’Iran e autorizzato de facto numerosi Paesi arabi - Arabia Saudita, Qatar, Giordania, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti - a mettere piede nella guerra siro-irachena che, se qualcuno lo dimenticasse, prima di ogni altra cosa è una lotta fratricida tra sunniti e sciiti. Fatto che rischia di allargare anziché frenare il conflitto odierno, dato che il ruolo di ciascuno di questi Paesi nel conflitto è quantomeno ambiguo.

Il pericolo terrorismo e il gruppo Khorasan

Ieri Obama, nel giustificare i pesanti bombardamenti della marina e dell’aviazione USA in Siria, ha affermato che tra gli obiettivi vi era anche il gruppo terroristico Khorasan, colpito perché in procinto di mettere in atto “un complotto contro obiettivi americani e in Europa”. Cosa che precipita nuovamente l’Occidente nel panico da attentato terroristico. Secondo fonti dell’intelligence USA, Khorashan è un gruppo di non più di 50 uomini, legato a doppio filo ad Al Qaeda centrale e ad AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba). Khorashan opera al fianco dei miliziani sunniti di Jabhat Al Nusra in Siria, ma il suo obiettivo non è tanto combattere il regime di Assad, quanto invece reclutare “martiri” della Jihad da inviare in Occidente a compiere un atto terroristico (si fa un generico riferimento alle linee aeree).

Il leader di Khorashan, Muhsin Al-Fadhli, si ritiene fosse molto vicino a Osama Bin Laden già ai tempi dell’11 settembre. Inscritto nella “lista dei terroristi” dal 2005, oggi farebbe riferimento all’attuale leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri. Ma, soprattutto, sarebbe legato ad Al-Asiri, uomo di AQAP noto per l’abilità nel creare esplosivi, e ad Al Juhni, responsabile del controspionaggio in Pakistan per Al Qaeda. Ricercato in Arabia Saudita e condannato in contumacia in Kuwait (dove aveva messo in piedi una rete di finanziatori della Jihad) riappare in Iran come “rappresentante anziano di Al Qaeda”. Nel 2012, il Dipartimento di Stato americano lo intercetta mentre sposta combattenti e denaro in Siria attraverso la Turchia. Attualmente, si ritiene che operi a Binnish, nella provincia siriana di Idlib, motivo per cui la zona è stata oggetto di pesanti bombardamenti.

I timori per l’Italia

Dunque, adesso l’Occidente ha contro di sé il Califfato Islamico tra l’Iraq e la Siria, i salafiti di Ansar Al-Sharia in Libia e nel resto del Nord Africa, i qaedisti in Yemen, Afghanistan e Pakistan, i fanatici della Sharia in Nigeria e Somalia. E questa nuova minaccia Khorashan, ritenuta capace di inviare in Europa cellule sparse, pronte a far saltare obiettivi simbolici - c’è chi cita persino Piazza San Pietro a Città del Vaticano - dirottare aerei e compiere altri misfatti contro tutti coloro che sono coinvolti a vario titolo nella grande guerra dell’Islam. Non proprio un bel risultato. Soprattutto per l’Italia che, indecisa a tutto, si è lasciata coinvolgere nel conflitto siro-iracheno per non si sa bene quale tornaconto.

Eppure, Roma poteva evitare il rischio di finire nel mirino del terrorismo internazionale: l’attacco in Siria e Iraq, infatti, sino ad ora non è passato per la via maestra di una risoluzione ONU, non è diretto ufficialmente dalla NATO e non se ne conosce neppure l’obiettivo finale. Condizioni sufficienti quantomeno a non esprimere una posizione belligerante. Ma non è andata così. Dunque, adesso si chiede agli analisti italiani di sicurezza internazionale se e cosa rischiamo in casa nostra. Se un attentato sia possibile e sotto quale forma. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, dice che “Roma e l’Italia sono tra i possibili obiettivi”. I nostri servizi segreti, più cauti (un po’ come i metereologi della protezione civile), dicono che l’allerta è alta sul tema.

Ma tutti concordano che l’Islam radicale è una minaccia credibile e sanno benissimo che un atto terroristico è solitamente imprevedibile, se non si è provveduto per tempo a costruire una solida rete di fonti e di informatori negli ambienti jihadisti. In definitiva, anche se improbabile in Italia, resta possibile, visto che abbiamo scelto di schierarci al fianco degli Stati Uniti di Obama in quest’avventurosa missione. Allora, la domanda è un’altra. Se non si può evitare di sottoporsi al rischio, come si fa a convivere con uno stato di guerra permanente? È a questo interrogativo che non tanto gli analisti ma piuttosto il governo italiano, attraverso le forze dell’ordine

Il grande esodo dalle terre dell'Isis

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Luciano Tirinnanzi