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È morto Umberto Veronesi: " Non mi spaventa la fine, mi spaventa fare una brutta fine"

Per ricordare il chirurgo che ha dedicato la vita alla lotta ai tumori, riproponiamo una sua intervista al nostro settimanale

È morto Umberto Veronesi. L'oncologo che ha scritto la storia italiana della lotta al cancro, il prossimo 28 novembre avrebbe compiuto 91 anni. È deceduto nella sua casa milanese.

Per ricordare il suo straordinario attaccamento alla vita, riproponiamo quest'intrvista rilasciata al nostro giornale:


Quando si raggiunge l’età di Umberto Veronesi, classe 1925, qualche riflessione esistenziale è d’obbligo. Di recente l’ha fatta anche Benedetto XVI, che è poco più giovane del professore: "Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del percorso della vita e non so cosa mi aspetta. Ma la fede mi aiuta a procedere con sicurezza".

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Lui, l’oncologo d’Italia, ascolta le parole del Papa con la curiosità di un ragazzino. Lo stesso che dalla campagna immersa nella nebbia andava a scuola a Milano scarpinando per 5 chilometri tutte le mattine. Erano i tempi dei calzoni corti anche nei giorni della merla, della Fiat Topolino, della guerra contro l’Etiopia, dell’Istituto per la ricostruzione industriale che doveva salvare le banche dalla bancarotta. Insomma, certe cose non cambiano mai.

Morto Umberto Veronesi. Il tumore e le donne | video

Per Joseph Ratzinger è la religione, a lei professore cosa l’aiuta a procedere con sicurezza?

Mi aiuta la mia idea laica d’immortalità. Credo che il patrimonio d’idee che lasciamo quando il nostro corpo non ha più vita sia immortale e credo anche che fino all’ultimo istante l’essere umano può produrre pensiero. Sono molti gli artisti e i pensatori che hanno raggiunto le fasi più produttive della loro attività quando erano molto anziani.

E quali sono i pensatori che hanno dato tanto nel loro ultimo tratto?

Basta pensare a Stéphane Hessel, che con il suo saggio Indignatevi ha smosso i giovani d’Europa. L’ultimo tratto della vita è bellissimo.

Perché bellissimo?

Anzitutto non devo più fare a pugni per fare carriera, e questa è una gran gioia. Poi si è arricchiti dalla conoscenza, dall’esperienza e da una filosofia di vita molto più distaccata e imparziale. Il metro di giudizio è più indipendente e meno passionale. Quindi è giusto vivere fino all’ultimo giorno senza il desiderio di andarsene, però è anche giusto accettare la morte come un finale necessario per il ricambio dell’umanità.

Scusi la domanda diretta: lei ha paura della morte?

No, la morte non mi fa paura. Quando ero soldato sono saltato su una mina e, in barba a tutte le statistiche, sono sopravvissuto. Ho passato mesi in ospedale, subito diversi interventi ma alla fine sono sopravvissuto e anche in buona salute. Questo ha cambiato la mia vita, perché da quel momento ogni giorno vissuto è stato un giorno rubato a quello che sembrava un destino inevitabile. Quest’esperienza mi ha dato forza, ottimismo, serenità e soprattutto un’assoluta mancanza di paura della morte.

Ma, sia sincero, proprio non la preoccupa la morte?

Beh, l’idea di dovere morire non mi piace come non piace a tutti. Ma piuttosto mi preoccupa il morire, vale a dire le fasi che mi porteranno alla fine della mia vita. In particolare temo di perdere la mia lucidità mentale e la mia coscienza.

Sempre incrociando le dita, quale sarebbe il suo ultimo desiderio?

Perché incrociando le dita? È proprio vero che siamo un popolo di superstiziosi. Noi rimuoviamo la morte e la teniamo nascosta quando invece è un elemento fondamentale della nostra vita. La demonizziamo e non vogliamo parlarne. Se dai la mano a una persona e contemporaneamente se la danno altri due, la ritrai subito perché incrociando le braccia fai una croce che richiama la morte. Ha notato?

Veramente non ci avevo mai pensato.

Provi, succede sempre qui da noi e all’estero invece no. L’Italia è la terra della superstizione: in tv vedi più maghi, chiromanti e sensitivi che scienziati, negli ospedali i pazienti non vogliono essere operati il giorno 13, sugli aerei hanno tolto la fila 13 e ora anche la 17. La superstizione è istituzionalizzata e non è una semplice credenza, abbiamo avuto un ct della nazionale che benediceva il campo da calcio con l’acqua santa. Si figuri quindi quanto è difficile parlare di morte.

Mi viene in mente la battuta scaramantica di Totò in «I soliti ignoti»: «È la vita, oggi a te domani a lui!».

Grande regista Mario Monicelli.

Che ha scelto di uccidersi. Forse se l’eutanasia fosse legale avrebbe scelto una fine più dignitosa…

Vede, purtroppo non sempre un medico riesce a lenire la sofferenza di un paziente e in questo caso la condizione terminale doveva risultare insopportabile. Comunque l’eutanasia è proibita dalla legge, anche se si tratta di un atto di pietà che non dovrebbe essere negato in certe circostanze.

Ha mai agevolato la morte di qualcuno?

Nessuno me l’ha mai chiesto. Ho posto da sempre un’attenzione estrema al controllo del dolore e, per mia fortuna, nessuno dei miei pazienti si è mai trovato in una condizione di sofferenza tale da chiedere di accelerare la sua fine.

Tornando all’ultimo desiderio?

Lo definirei il primo desiderio e non l’ultimo: vedere il cancro sconfitto. Questo è il mio obiettivo, anzi la missione della mia vita. Poi, nella vita di tutti i giorni, desidero quello che vogliono anche gli altri uomini.

Cioè soldi, potere e sesso?

Veramente questo è il sogno solo di alcuni.

Scherzavo, passiamo alle cose serie: cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

Qui giace un uomo che ha contribuito al controllo del male del secolo.

Crede nell’aldilà?

No.

Quando ha incontrato per la prima volta la morte?

Ho perso mio padre che avevo 6 anni, poi all’inizio della mia professione di medico mi sono occupato soprattutto di malati terminali senza speranza. Forse per questo motivo mi sono intestardito a fare in modo che la parola cancro non fosse più sinonimo di morte sicura.

Lei ha curato con successo migliaia di pazienti, altri non ce l’hanno purtroppo fatta. Secondo la sua esperienza qual è il modo migliore d’affrontare la morte?

Ho curato 30, forse 50 mila pazienti. La morte è un fatto naturale: è parte del disegno biologico della natura che prevede il nascere, il riprodursi e il morire. Così è per ogni organismo vivente. Se si ha consapevolezza di questo principio, la morte si affronta con serenità.

Quindi la morte è in qualche modo un dovere?

Sì, un dovere biologico: è parte integrante del disegno biologico ed è necessaria per il processo evolutivo della specie. Dobbiamo lasciare spazio e risorse per le nuove generazioni. Mi viene in mente a questo proposito José Saramago che in Intermittenze della morte immagina una comunità dove improvvisamente nessuno più muore, e questo causa un enorme turbamento e un caos totale, perché il fatto è assolutamente contrario alle norme della vita.

Però, si diceva per Monicelli, anche un diritto…

Credo nel principio della responsabilità della vita e nell’autodeterminazione della persona. Se dunque le civiltà riconoscono il diritto di operare le scelte fondamentali della propria vita (come il diritto a scegliere il proprio domicilio, a costituire o non costituire una famiglia e così via) non vedo perché non devono riconoscere il diritto di scegliere come concludere la propria esistenza.

In passato si è a lungo parlato di testamento biologico. Ora sembra calato il silenzio, a che punto siamo?

La richiesta di una legge sul testamento biologico ha portato paradossalmente a una proposta di legge che, di fatto, lo vieterebbe. Per fortuna quindi la discussione parlamentare è stata, per così dire, congelata. Piuttosto che una cattiva legge è meglio nessuna legge e dunque se non siamo pronti in Italia ad affrontare giuridicamente i temi di fine vita, meglio lasciare le cose come stanno e rifarsi alle convenzioni internazionali e al codice di deontologia medica.

Esiste un confine preciso tra terapia e accanimento?

L’accanimento terapeutico è un ossimoro. Nessun medico «si accanisce» contro il suo paziente. Certamente è difficile in alcuni casi trovare il punto di equilibrio tra fare e non fare, ma esiste un prezioso ago della bilancia: la volontà del paziente. Se si rispetta, il rischio di ostinarsi in cure troppo invasive o tossiche per il malato è molto ridotto.

Credenti e laici affrontano diversamente la fine della vita?

Sembra assurdo, però ho visto morire più serenamente i non credenti. Credo che il laico si prepari tutta la vita alla morte: ci pensa quando imposta il proprio progetto di vita sapendo che non ci saranno ulteriori sviluppi dopo la fine. Invece il credente arriva più spaventato, forse perché teme il giudizio di Dio.

Lei non ha una grande opinione della religione…

Dico solo che scienza e fede saranno sempre antitetiche: la prima vive di dubbi, la seconda presuppone di credere ciecamente in una specie di leggenda senza il diritto di criticarla o metterne in dubbio dogmi e misteri.

Tra tante bufale, ci sono oggi scoperte scientifiche che permettono davvero di allungare la vita?

Pier Giuseppe Pelicci all’Istituto europeo di oncologia ha scoperto che abbiamo un gene, il P66, che regola la durata della vita, e che, se questo viene inibito, la vita si allunga del 20 per cento.

Come funziona?

In pratica l’invecchiamento è dovuto allo stress ossidativo, ovvero ossigeniamo troppo le nostre cellule che per questo motivo hanno una vita misurata. Questo spiega perché l’uomo vive 80 anni, il cane 15 e l’elefante 150. Il P66 stimola l’ossidazione cellulare che ci vuole, ma quando è troppo intensa abbrevia l’esistenza. Questo gene può essere eliminato nel topo ed è dimostrato che allunga la vita, ma non nell’uomo.

Perché nell’uomo non si può?

Bisognerebbe toglierlo da un embrione dopo una fecondazione in vitro. Ma è proibito dalla legge e poi c’è anche un problema etico: vivrà davvero di più questo bambino? E gli effetti collaterali? Se potessimo manipolare il genoma umano potremmo fare delle cose gigantesche, anche se penso non sia giusto.

Gigantesche quanto?

Inserendo nel genoma umano il fattore della crescita di un elefante avremmo bambini alti quattro metri. Se un genetista spregiudicato incontrasse una madre altrettanto spegiudicata tecnicamente si potrebbe fare. Però scriva che io non sono d’accordo.

Facciamo un gioco: tra un secolo quanto la scienza riuscirà ad allontanare la morte?

La scienza non si occupa d’immortalità, ma di durata della vita in buona salute. In ogni caso oltre il limite dei 120 anni non è pensabile andare.

A proposito d’immortalità e continuazione della specie, lei ha sette figli...

Ecco, i figli sono l’immortalità, perché faranno altri figli e così la vita non finisce mai. Il nostro corpo muore ma il nostro Dna continua perché i figli hanno la stessa carne, lo stesso metabolismo…

Convivere a così stretto contatto con la morte, la nemica che combatte da una vita, come l’ha cambiata?

Io non ho mai combattuto la morte in sé. Ho combattuto la morte prematura a causa di una malattia e ho combattuto il dolore sempre, anche nel processo del morire. Il dolore non ha nessuna utilità, non porta catarsi né redenzione, quindi va evitato con tutti i mezzi che la scienza medica mette a disposizione.

La morte si può allontanare ma non evitare. Lei cosa fa per allontanarla?

Soprattutto si può allontanare la malattia e mantenere una buona qualità di vita fino alla sua fine. A questo fine io seguo poche semplici regole: non fumo, mangio poco e vegetariano, soprattutto tengo allenata la mia mente, perché la nostra età è l’età del nostro cervello.

Siamo in un momento in cui la morte non sembra solo individuale, ma quasi sociale: lei come vede il futuro?

Oggi viviamo un momento di schizofrenia: il mondo economico è in crisi, mentre il mondo del pensiero è in evoluzione. Per questo sono ottimista per il futuro. In 10 mila anni di storia, la scienza ha costantemente migliorato la nostra vita, superando guerre, carestie e catastrofi, e a ogni progresso scientifico ha sempre fatto seguito un passo avanti della civiltà. Non può che essere così anche oggi e la società futura sarà una società migliore.

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ANSA/MATTEO BAZZI
Il professore Umberto Veronesi in occasione della conferenza stampa all'Expo Gate di Milano, in una immagine del 17 marzo 2015.

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Carlo Piano