Negli Stati Uniti è già caccia al nuovo presidente
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Negli Stati Uniti è già caccia al nuovo presidente

Sarà una sfida dal sapore antico quella che nel 2016 potrebbe opporre per la Casa Bianca due dinastie già note agli americani, i Clinton e i Bush

Per Lookout news

L’America ha votato. I democratici hanno perso il controllo dell’intero Congresso, lasciandosi sfilare anche il Senato dai repubblicani. Una bomba teleguidata direttamente dentro la Casa Bianca, che ha frantumato le certezze dell’Amministrazione Obama e che adesso dà al GOP, il Grand Old Party, la più larga maggioranza repubblicana dai tempi del presidente Harry Truman (quello che lanciò la vera bomba, quella atomica, nell’agosto del 1945).

 North Carolina, Colorado, Iowa, West Virginia, Arkansas, Montana e South Dakota. Sono solo alcuni dei seggi che hanno consegnato al GOP la prima maggioranza rossa al Senato dal 2006.

 Ma cos’ha pesato di più nel voto americano? Non certo l’economia, visto che quella americana viaggia su ritmi notevolissimi e il PIL cresce oltre le attese, mentre la disoccupazione continua a scendere e oggi è intorno al 6% (in Italia, per dire, è oltre il 12%). La crescita e la fuoriuscita dalla crisi non sono frutto dell’abilità del presidente e del suo staff. E, tradizionalmente, negli Stati Uniti l’intervento del governo nell’economia è sempre giudicato molto relativo e nessuno mai ne riconosce i meriti direttamente alle amministrazioni in carica, preferendo alimentare il mito patriottico dei “self made men”.

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 La politica estera, vera responsabile della disfatta
Ad aver pesato sulla sconfitta del primo presidente nero d’America è stata senz’altro la politica estera. Anche se queste sono ovviamente delle semplificazioni, basta guardare un po’ di CNN, la principale emittente statunitense, per comprendere come, nella quotidianità dell’informazione statunitense, la politica estera prevalga spesso e volentieri sugli interni.

 Le minacce, l’impegno militare, le paure irrazionali come Ebola si traducono più spesso in giudizi negativi sugli uomini al potere di quanto non lo faccia una legge sulla Sanità (altra battaglia persa da Obama e i democratici).

 Ne consegue che, quando un presidente si mostra incapace di affermare la supremazia americana oltreconfine, egli è destinato alla sconfitta perché inevitabilmente percepito in termini molto più sfavorevoli di quanto non accada ai suoi colleghi in Europa. Alcune scelte della Casa Bianca hanno incontrovertibilmente volto in negativo i successi elettorali del 2008 e del 2012 di Barack Obama, erodendo le aspettative (forse eccessive) che gli americani riponevano nel giovane presidente.

 Come potrebbe il popolo americano sostenere ancora un leader che segna una “linea rossa invalicabile” (vedi la Siria di Assad) di fronte ai suoi nemici e al mondo e poi, una volta superata, egli non agisce di conseguenza?

 Come può flirtare con l’Iran degli Ayatollah, che sino a pochi mesi fa vedevano nell’America il diavolo e si affannavano a costruire l’atomica, senza poi ottenere un risultato tangibile? Come fa ad aver trascinato ancora una volta gli Stati Uniti in Iraq, per poi mostrarsi scettico e reticente a schiacciare militarmente lo Stato Islamico? Anche se una politica estera forte non è garanzia di successo (vedi Geroge Bush senior), una politica estera debole è invece sempre una pietra tombale sulla politica yankee.

 Il 2016 e il nuovo presidente
Dunque, da oggi Capitol Hill può fare a meno dell’ostruzionismo repubblicano e il GOP può così lavorare con calma per scovare un candidato - che ancora non esiste - che si dimostri all’altezza delle presidenziali del novembre 2016, quando Barack Obama lascerà la stanza ovale e tutto verrà messo nuovamente in discussione.

 I democratici, per niente colti di sorpresa da questa bocciatura, sono già al lavoro per rispolverare il proprio prestigio e presentare al meglio delle possibilità Hillary Clinton, a meno di sorprese dell’ultim’ora. Nel caso della sua candidatura, per capire quante possibilità ha di vincere bisognerà giudicare lo slogan con cui l’ex first lady si presenterà. Se i democratici punteranno su “la prima donna presidente degli Stati Uniti”, come le premesse indicano, sarà un fallimento.

 Non è forse questa una discriminazione di genere? Basta essere donna per ottenere i voti degli americani? Un po’ troppo azzardato, anche per la famiglia Clinton. Come se il fatto di avere eletto “il primo presidente nero d’America” fosse stato una garanzia sufficiente per assicurare al Paese un governo migliore. Meglio cambiare strategia.

 L’avvocatessa e moglie dell’ex presidente Bill Clinton è notoriamente un politico senza scrupoli, cui non manca quella determinazione che invece è costata cara a Obama. Ma il suo radicalismo, lo spirito accentratore e soprattutto il suo cinismo la rendono un soggetto pericoloso sul quale è difficile scommettere, anche per il partito dell’asinello.

 Proprio per questo, infatti, Hillary era stata allontanata dal dicastero degli esteri e scaricata da Obama in persona, che ne aveva preso progressivamente le distanze. Un fatto che comunque oggi la candidata in pectore alla presidenza potrebbe sfruttare a proprio vantaggio.  

 Sic stantibus rebus, ad assegnarle la vittoria nel 2016 sarebbe allora solo l’assenza di un degno avversario. I repubblicani, infatti, hanno visto impallinati numerosi pretendenti lungo la strada verso la Casa Bianca. Chi per corruzione, chi per droga, chi per insipienza.

Il terzo presidente Bush
Al momento, all’orizzonte spunta soltanto un nome. Anzi, un cognome che il GOP e il resto del mondo conoscono fin troppo bene. È ancora quello di un Bush, il terzo dopo George Senior (presidente dal 1989 al 1993) e George W. (in carica dal 2000 al 2008).

 Questa volta si chiama George Prescott, ha solo 38 anni (classe 1976), è figlio di Jeb Bush e nipote di George W. Ovviamente, milita nelle fila repubblicane ed è stato appena eletto in Texas come land commissioner del Texas General Land Office, ovvero il commissario delle terre pubbliche e dei diritti sulle miniere del potente e ricco Stato meridionale. Non una carica qualunque, viste le riserve di petrolio e gas del sottosuolo texano.

 Oltre ad aver centrato una vittoria elettorale alla sua prima competizione, fatto inedito per la dinastia Bush, George Prescott vanta un curriculum da insegnante, avvocato, uomo d’affari e riservista della Marina (la più prestigiosa tra le forze armate USA).

 Inoltre, sua madre, Columba Garnica Gallo, è messicana e questo potrebbe giocare straordinariamente a suo favore in vista di elezioni presidenziali. I trend nazionali indicano che gli ispanici crescono più rapidamente di ogni altra etnia in America. Quest’anno hanno superato per numero anche la comunità nera e, sul totale della popolazione americana, oggi sono secondi solo ai bianchi tra le etnie. In Texas, inoltre, gli ispanici supereranno presto anche la stessa comunità bianca.

 Anche se George Prescott scherza e sa bene che, prima di lui, ci dovrà semmai provare il padre Jeb, la sua candidatura a presidente degli Stati Uniti non è da escludere in partenza. In ogni caso, per il momento anche gli USA si dimostrano ancora troppo legati alle dinastie e incapaci di cambiare politica, proprio come quella vecchia Europa che non mancano di criticare non appena possono.

 

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Luciano Tirinnanzi