"Ventimila detenuti non dovrebbero stare in cella"
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"Ventimila detenuti non dovrebbero stare in cella"

Così dice il segretario del Sindacato degli agenti penitenziari, in un'intervista al "Gazzettino di Venezia". E ha perfettamente ragione

"Il problema delle carceri non è solo il sovraffollamento, ma la concezione delle strutture, in rapporto con il territorio e con il recupero dei detenuti".

Questo è l'attacco di una bellissima, utilissima, interessantissima intervista pubblicata ieri da Giuseppe Pietrobelli sul Gazzettino di Venezia. Interessante soprattutto perché a parlare con Pietrobelli non è un giurista progressista, il solito politico illuminato, un avvocato. È Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Uno che rappresenta gran parte dei 38 mila agenti e quindi di carceri s'intende al massimo livello ma che, secondo la vulgata, non dovrebbe avere l'anima del garantista.

Invece , al contrario, le parole di Capece raccolte da Pietrobelli sono quanto di più organicamente garantista possa essere letto oggi in materia di carceri. Per questo, oggi, è giusto dare la parola al Gazzettino.

Godetevi l'intervista, sia voi che credete che le prigioni siano un posto dove sbattere i criminali e poi buttare via la chiave, sia voi che invece credete nel precetto costituzionale della rieducazione.


Cominciamo dalle cifre. È vero che ci sono troppi carcerati?
"È vero che siamo scesi dai 66 mila di alcuni anni fa ai 53 mila attuali, ma il numero dei letti previsti è di 46 mila. Gli agenti di custodia, poi, a fronte di una pianta organica di 45 mila unità, conta 38 mila unità. Siamo sotto organico di 7 mila agenti".
 
È vero che il sovraffollamento è il primo problema?
"No, è un falso problema. Il vero problema è la mancanza di una seria programmazione da parte della politica e dell'amministrazione penitenziaria. Servirebbe una riforma strutturale, perché il sistema del carcere-albergo è ormai superato, non ha senso".
 
Il motivo?
"In carcere ci sono troppi soggetti che non vi dovrebbero stare. Bisognerebbe puntare per 15-20 mila persone, che non creano allarme sociale, al carcere-territoriale, grazie alle misure alternative, ai domiciliari, al braccialetto elettronico, ai lavori di pubblica utilità".
 
E il carcere vero?
"Dovrebbe servire per la criminalità vera e i reati gravi, al massimo per 30mila persone. Gli stranieri che hanno una pena detentiva da scontare dovrebbero essere espulsi, trasferiti nelle galere dei loro paesi d'origine. Ma anche i tossicodipendenti dovrebbero uscire: a loro il carcere non serve".
 
Il principale difetto delle carceri attuali?
"Non sono in grado di restituire cittadini in grado di reinserirsi. Troppi detenuti non fanno nulla, vivono nell'ozio, hanno tutto il tempo di creare disordini. Penso agli stranieri: stanno bene, mangiano e bevono gratis. Chi sta meglio di loro? E gli agenti penitenziari sono costretti lavorare da soli nel caos, facendo da assistenti sociali, sacerdoti ed educatori. E salvando la vita di tanti disperati".

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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