Migliucci
Beniamino Migliucci, presidente UCPI
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Lo strappo garantista di Beniamino Migliucci (Ucpi)

Intervista al neo-presidente dell’Unione delle camere penali: "La riforma della giustizia deve ripartire dai diritti degli imputati. E anche il 41 bis..."

Nella sua prima relazione ha parlato del «potere prevaricante» della magistratura, ne ha contestato addirittura lo «straripamento»; poi ha criticato i continui «insulti alla difesa». Beniamino Migliucci, nato a Bolzano 58 anni fa, dal 21 settembre è il nuovo presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi), il leader degli avvocati uscito dall’ultimo congresso a Venezia. Figlio d’arte (suo padre era arrivato a Bolzano da Napoli, e ha sempre fatto il penalista in Alto Adige), secondo le cronache congressuali Migliucci ha vinto sugli altri candidati incarnando la linea più intransigente dell’avvocatura italiana: quella che non vuole mollare di un millimetro sui principi del giusto processo e sul tem di una riforma equilibratrice della giustizia.

Avvocato, è vero che lei rappresenta uno «strappo» per l’Unione delle camere penali?
La nostra linea resta quella di un dialogo molto serrato con la politica, per riportarla al corretto e vero principio costituzionale della separazione dei poteri. Vogliamo contrastare ogni straripamento della magistratura indotto dalle troppe, continue deleghe improprie offerte da una politica in ritirata. E siamo consapevoli che il primo ostacolo a una vera riforma della giustizia sta proprio in quella parte della magistratura che è troppo spesso riuscita a imporre la sua visione alla poltica.

Questo vuol dire che le precedenti giunte dell’Ucpi hanno sbagliato qualcosa?
Non critico i miei predecessori: hanno fatto tutto quel che era possibile fare; non sempre le cose riescono. Certo, il clima politico degli ultimi anni non ci ha favorito. Anche la discontinuità governativa degli ultimi tempi non ha consentito un’interlocuzione che fosse utile.

Spera che il governo Renzi possa essere un interlocutore migliore?
Dipende. È vero che, anche parlando della riforma della giustizia, il presidente del Consiglio ha dichiarato di volere sostenere con maggiore forza il ruolo della politica nei confronti della magistratura. Ma intorno a lui c’è sempre chi dice il contrario: come si fa ad affermare che quella tale riforma, quella legge o quell’altra, hanno avuto il «beneplacito» preventivo del Procuratore antimafia, se non addirittura dell’Associazione nazionale magistrati?

È questo che per lei è il «travalicamento»?
Sì. La magistratura troppo spesso è uscita dall’alveo costituzionale della separazione dei poteri. Tutti teniamo alla sua indipendenza, ci mancherebbe! Ma è sotto gli occhi di tutti che negli ultimi 20 anni la politica ha abdicato al suo ruolo di guida. Alla magistratura, in diversi periodi storici, ha consegnato deleghe praticamente in bianco: sul terrorismo, sulla mafia, sulla corruzione…

Quindi?
Uno dei problemi è rappresentato da quei 100 e passa magistrati, oggi fuori ruolo, che lavorano negli uffici legislativi dei ministeri. Esprimono di fatto un controllo sulle leggi, un controllo indebito. Tornino nei loro uffici a fare il loro vero lavoro. Anche nella Corte costituzionale tutti gli assistenti sono magistrati: perché ogni tanto non si può ricorrere ad altre figure, come accademici o avvocati?

È la stessa cosa al Consiglio superiore della magistratura: gli assistenti, anche quelli dei consiglieri non togati, sono tutti magistrati…
Ecco, parliamo proprio del Csm. Nella discussione all’Assemblea costituente Pietro Calamandrei e Palmiro Togliatti avvertirono del rischio che potesse diventare un organo troppo «autoreferenziale», che avrebbe marchiato negativamente la magistratura e inciso sulla sua azione. Avevano ragione. Dobbiamo ricordarci tutti che il Csm non è l’organo di autogoverno della magistratura, bensì l’organo di governo della magistratura.

E lei come vorrebbe che cambiasse?
Ne vorrei due, di Csm, ben separati tra loro: uno per i magistrati inquirenti, l’altro per i giudicanti. E vorrei che cambiasse la loro composizione: più spazio all’accademia, all’avvocatura. Vorrei anche un’Alta corte di disciplina, separata.

Quindi la separazione delle carriere resta un vostro obiettivo.
È «il» nostro obiettivo.

Se ne parla ormai da così tanto tempo…
Inutilmente, perché non se n’è mai discusso laicamente. Eppure c’è stato un tempo in cui, contro quanti sostenevano che il giudizio d’appello dovesse essere eliminato, molti opinion leader sostennero che sarebbe stato un grave errore perché nel secondo grado processuale i giudici erano molto più lontani dalle procure. Ecco: perché mai la separazione delle carriere viene considerata un tabù non discutibile? Non è così. Dobbiamo spiegarlo all’opinione pubblica. È uno dei nostri compiti.

Nella sua relazione lei ha parlato anche di un’altra separazione delle carriere: quella tra pm e cronisti di giudiziaria.
Sui giornali, al termine delle indagini preliminari, o con un semplice arresto, si svolge un processo velocissimo e praticamente senza contraddittorio. Non ha alcuna importanza che poi l’indagato o l’imputato venga assolto in tribunale.

Per forza: se faccio il cronista e voglio fare degli scoop devo ingraziarmi il pm: e se non lo fiancheggio non avrò più carte.
Esattamente. Le Procure spesso parlano attraverso i giornali. E questo è un problema grave: non soltanto per la gogna mediatica che scatena, ma anche ai fini processuali. Perché spesso la pubblicazione di atti e di intercettazioni fa cadere la «verginità cognitiva» del giudice. Il punto è che per certi magistrati, e per certi giornali, il processo spesso si trasforma in una lotta contro qualcosa o contro qualcuno. La corretta visione laica è un’altra: il processo è la ricerca della responsabilità effettiva dell’imputato.

In questo ambito ricade il tema dei magistrati che sbagliano, e che non pagano.
Non mi pare che in altri ordinamenti la responsabilità civile dei magistrati sia vissuta come una minaccia alla loro indipendenza. Se ci sono errori, soprattutto se sono dolosi, devi risponderne. Certo, con tutte le tutele del caso. A questo servirebbe l’Alta corte di disciplina: è normale che in Italia il magistrato che sbaglia non paghi, ma al contrario faccia carriera? È possibile che dal referendum sulla responsabilità civile del 1987 e dalla successiva legge Vassalli, approvata nel 1988, si siano conclusi fino a oggi appena 7 procedimenti di questo tipo?

Come giudica i progetti di riforma della giustizia, peraltro un po’ confusi, di cui si è parlato negli ultimi mesi?
Ho letto cose molto diverse tra loro. E sarebbe sbagliato esprimersi in termini definitivi su riforme tanto incerte. Due cose, però, posso dirle: la prima, non capisco di che cosa si preoccupi l’Associazione nazionale magistrati; la seconda, non capisco nemmeno che cosa abbia da lamentare il presidente del Senato, Pietro Grasso, quando dice che «non si fanno riforme contro le toghe». Io queste riforme punitive proprio non le vedo. Anzi…

Che cosa vede?
Ben altro. Prendiamo soltanto l’idea di eliminare il giudizio d’appello. Su questo tema si sappia che siamo contrari in modo assoluto, che c’è la nostra totale disapprovazione. Quante volte in secondo grado il giudizio viene ribaltato?

E sulla prescrizione?
Di quella accusano sempre le «tecniche dilatorie dei difensori». Sa dove avviene, in realtà, la prescrizione? Per il 70 per cento e passa dei casi emerge nelle indagini preliminari, proprio quelle affidate alle mani del pubblico ministero. Pongo io una domanda: perché mai i giudici delle indagini preliminari concedono regolarmente ai pm le proroghe che vengono chieste, spesso a prescindere dal merito? Ma anche in questo caso torniamo alla separazione delle carriere: sarebbe utile perfino per la celerità della giustizia. Nel 2008, con l’Eurispes, conducemmo una ricerca scientifica sui veri motivi dei ritardi processuali: saltò fuori che la responsabilità risiedeva soprattutto nella grave disorganizzazione di procure e tribunali. Lo segnalammo al governo, al Csm, all’Anm. Sono passati 6 anni, aspettiamo ancora una risposta.

Nella sua relazione lei ha parlato anche dell’art. 41 bis. Lamentarsi del regime carcerario particolarmente restrittivo è andare controcorrente.
Lo so. È una battaglia decisamente controcorrente. Ma è giusta. Quando si eccede nella pena, il carcere diventa crudeltà. Non bisogna mai confondere il reato con la pena. È giusto che i mafiosi in carcere non debbano assolutamente avere contatti di nessun genere con i criminali all’esterno. È sacrosanto. Ma che senso ha tutto il resto?

Una difficile battaglia.
Ma è la nostra funzione. Dobbiamo fare proposte, proporre una cultura che ha l’ambizione di cambiare questo paese, di migliorarlo. Dobbiamo superare le ristrettezze dell’ideologia, allargare le idee. E fare capire all’opinione pubblica che la materia richiede un approccio laico: qui non ci sono tabù.

 

 

 

 

 

 

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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