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La Banca del dna che arresta i criminali

L'archivio informatico ha portato alla risoluzione di 52 casi in meno di un anno. Come funziona l'ultima arma della giustizia

Ha iniziato a investigare dal gennaio 2018 e ha già risolto 52 casi, tutti complessi. E ora sta accelerando, visto che dieci di quei casi li ha chiusi nelle ultime due settimane di lavoro. Ha scoperto gli autori di furti (l’80 per cento del totale), due dei quali compiuti in Svizzera da cittadini italiani. Ha individuato anche i presunti colpevoli di omicidi, rapine, violenze sessuali... E ha fatto tutto da sola.

Chi è, la nuova Miss Marple? Macché: è la Banca dati del Dna. Come spesso accade in Italia con le cose davvero importanti, per averla c’è voluto fin troppo tempo. Per l’esattezza, 12 anni e 7 mesi: dal maggio 2005, quando se ne iniziò a parlare grazie al trattato europeo che ne decretò l’avvio in altri cinque Paesi, fino al dicembre 2017, quando il laboratorio è entrato in attività con tutti i crismi. Poi è servito un anno di rodaggio. Ora, finalmente, anche l’Italia ha la sua Banca dati del Dna, in piena efficienza. Così le forze dell’ordine hanno messo il turbo, e il crimine ha un formidabile nemico in più. Nei suoi primi 12 mesi, l’archivio ha prodotto ottimi risultati: quei 52 casi, per i quali non era stato trovato un responsabile, sono stati risolti solo perché il materiale genetico repertato sulla scena del crimine ha trovato il suo proprietario, e s’è individuato un presunto colpevole.

Il sistema si basa su due strutture. Il cuore è l’archivio informatico, presso il ministero dell’Interno. Qui sono conservati oltre 12 mila dati relativi alle tracce di Dna, vecchie e nuove, rilevate sulle scene del crimine dagli agenti della Polizia scientifica o del Ris, il Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri. Primo compito del cervellone è verificare se reati diversi tra loro, o avvenuti in luoghi differenti, abbiano lo stesso autore. Già qui la Banca dati è fondamentale: il suo responso permette di mappare profili criminali completi, che altrimenti resterebbero un puzzle. Ma nella Banca entrano anche i dati genetici individuali, elaborati dal braccio del sistema: il laboratorio centrale del Dna, alle dipendenze del ministero della Giustizia, ospitato in un edificio attiguo al carcere romano di Rebibbia. È qui che, dal 10 luglio 2016, ogni giorno affluiscono i campioni di saliva estratti dagli agenti della polizia penitenziaria ai detenuti che entrano in un carcere o che vi scontano una pena. Basta un cotton-fioc sterile strusciato sulle gengive del recluso: nessuno può opporsi.

La raccolta dei campioni è a ritmo serrato. Erano 35 mila a fine 2016, 95 mila nel 2017, 140 mila l’anno scorso. «Oggi sono oltre 150 mila» dice a Panorama Renato Biondo, 52 anni, il dirigente della polizia, biologo e direttore della Banca del Dna, «anche se quelli elaborati finora dai 60 tecnici del laboratorio, che creano accurati profili genetici da trasformare in schede per l’archivio, sono solo 5 mila».

Il lavoro del laboratorio è minuzioso e inevitabilmente complesso, e quindi lento. Ma via via che avanza, con il continuo inserimento di nuovi profili nella Banca dati, porta risultati eccellenti. «Con 5 mila individui schedati abbiamo risolto più di 50 casi» calcola Biondo «vuol dire che la nostra media di successo supera l’1 per cento». Quando in archivio saranno entrati tutti i 150 mila profili oggi disponibili, che poi con gli anni continueranno sempre ad aumentare, la mappatura a disposizione dell’autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine sarà notevole. Certo, servirà tempo per coprire il gap con i Paesi che hanno cominciato prima. In Gran Bretagna sono 6 milioni i profili criminali archiviati nei 20 anni della banca dati. In Francia e in Germania, dove l’operatività risale a dieci anni fa, sono rispettivamente 2 milioni e un milione. Biondo, per l’Italia, ha come obiettivo un milione di schede in una dozzina d’anni.

Le richieste degli inquirenti arrivano alla Banca dati tutti i giorni, e da ogni parte d’Italia. Questure e procure chiedono se un campione di Dna prelevato sulla scena del delitto, e lasciato a quello che per loro è ancora il classico «autore ignoto», abbia un collegamento con uno di quelli archiviati. A quel punto parte una ricerca che dura pochi secondi. Ma soltanto se scatta il «matching», cioè la perfetta combinazione tra due profili, magistrati e forze dell’ordine ottengono un nome e un cognome. Fino a quel momento, invece, i profili individuali sono tutti anonimi, identificati solo da un codice a barre. L’anonimato non è un capriccio: evita ogni possibile abuso, come casi di «colpevoli precostituiti» o tentativi di «incastro». I nomi dei proprietari del Dna archiviato diventano decifrabili, per di più, solo se si verifica la piena corrispondenza tra 24 diversi elementi caratteristici della sequenza genetica. Da questo punto di vista, la tecnologia italiana è tra le più avanzate e garantiste al mondo. «Siamo stati fra gli ultimi a dotarci di un sistema del genere, ma siamo all’avanguardia» dice soddisfatto Biondo.

«È da prima del 2004 che ci battevamo per avere questo strumento» dice Luciano Garofano, il generale del Ris dei carabinieri di Parma che nel 1998 risolse il caso del serial killer Donato Bilancia, «perché sapevamo sarebbe stato il più efficace contro il crimine. Ogni profilo in più che entra oggi in archivio, servirà a risolvere un numero maggiore di reati domani, e anche quelli di ieri». Chi ha inaugurato la sua banca dati del Dna molto prima di noi, come la Gran Bretagna, oggi risolve in media il 60 per cento dei suoi reati.

Nel Regno Unito, dove le rilevazioni del Dna vengono condotte a tappeto anche sui piccoli furti, in questo settore la quota di criminali individuati è il 70 per cento. «A Londra» spiega Biondo «hanno concentrato la ricerca genetica proprio sui furti, tipico delitto seriale, per dedicare più risorse umane ai reati più complessi». L’obiettivo, adesso, è accrescere al massimo la collaborazione internazionale. I primi 60 Paesi con una banca del Dna raccolgono, insieme, la mappa cromosomica di oltre 100 milioni di soggetti. «Pensate che cosa si potrebbe fare mettendo insieme tutti quei dati» sbotta Biondo. Altro che Miss Marple...
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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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