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Immigrazione: trasparenza, meriti e flessibilità per gestirla al meglio

Come rilanciare la crescita nazionale senza danneggiare la forza lavoro locale

Oggi si parla tanto di immigrazione, e lo si fa non tanto perché va di moda, ma perché effettivamente l'eccessiva mobilità delle persone, a prescindere dalle ragioni che la determinano, rende necessario mettere a punto nuove strategie per poterla gestire in maniera efficiente.

Il problema è così importate che anche Donald Trump, in uno dei suoi ultimi comizi, ha deciso di offrire il suo punto di vista, proponendo la creazione di un'apposita commissione che possa valutare gli aspiranti immigrati sulla base della loro reale possibilità di avere successo nel paese in cui intendono spostarsi (in questo caso, gli Stati Uniti) e la capacità di auto-sostenersi finanziariamente. Ancora, secondo Trump la selezione dovrebbe basarsi anche su meriti, abilità professionali specifiche e capacità di comunicare nella lingua del paese selezionato (in questo caso, quindi, in inglese). 

Il metodo Trump

I principi su cui si poggia questo ragionamento non sono sbagliati: inutile accogliere chi non è in grado di mantenersi visto che il trasferimento in un altro paese non solo comporta una serie di costi di transizione elevati, ma pone anche l'aspirante immigrato in una situazione di incertezza relativamente ai suoi guadagni futuri visto che non è detto che quest'ultimo riesca a trovare lavoro in tempi così rapidi. Se si vuole avere un impiego in un altro paese, bisogna conoscerne la lingua. Se non si è in grado di comunicare con nessuno, nemmeno in maniera semplice, non solo si rimane tagliati fuori dal mercato del lavoro, ma anche la gestione della quotidianità diventa impossibile. O ancora, è evidente come lo screening sulle qualifiche degli aspiranti immigrati sia essenziale per non creare esternalità negative per la forza lavoro già disponibile nel paese: bisogna guardare all'estero per colmare le lacune sul piano dell'occupazione, non per creare sacche di mercato in cui l'offerta è superiore alla domanda.

Il metodo anglosassone

Il metodo Trump non è però di certo stato scoperto oggi. I paesi che da sempre gestiscono meglio i flussi di ingresso degli immigrati lo fanno contando su strutture specifiche. Inghilterra e Australia, ad esempio, hanno una lista precisa di professionalità che nel paese o non esistono o sono troppo poco rappresentate che funge da riferimento per chi progetta di trasferirsi nel paese. Quindi se l'aspirante immigrato è in grado di garantire abilità di cui la nazione ha bisogno ottiene un visto di lavoro, altrimenti prima deve trovare qualcuno disposto ad assumerlo e poi trasferirsi.

La politica di immigrazione perfetta

Da notare però che le nazioni con le politiche di immigrazione più virtuose spesso non si accontentano di accogliere tutti i candidati in grado di colmare le lacune professionali nazionali, ma li selezionano seguendo una rigida graduatoria che valuta percorsi di studi, qualifiche ed altri meriti. Nel tentativo di essere il più possibile obiettivi e trasparenti. Spesso, poi, ai neo-immigrati si impongono dei vincoli. Ad esempio, spesso alcuni visti di lavoro vengono concessi a persone magari leggermente meno qualificate che però accettano di lavorare in aree più remote. Oppure il permesso di lavoro viene erogato a patto che il candidato non modifichi il settore di impiego per un determinato periodo di tempo (per evitare quindi che, ad esempio, un aspirante minatore scelga poi di accettare un'altra offerta lasciando scoperta la posizione per cui era stato assunto).

L'importanza dei controlli

Una politica di immigrazione deve essere rigida nei principi ma flessibile nell'applicazione, nel senso che la composizione del mercato del lavoro di un paese può cambiare nel tempo e la politica di immigrazione deve essere in grado di adattarsi alle nuove necessità. Tuttavia, se non si rispettano le regole il sistema non può funzionare. L'Australia, ad esempio, ha messo la responsabilità nelle mani dei datori di lavoro, che vengono pesantemente multati se assumono personale senza visto. Hong Kong, realtà molto più piccola, i controlli li fa sui passaporti, invitando chiunque abbia un visto in scadenza ad andarsene quanto prima.

Come tutelare i lavoratori locali

Per tante associazioni sindacali aprire all'immigrazione i settori in cui l'offerta di lavoro interna non riesce a garantire la piena occupazione danneggia comunque la forza lavoro nazionale. Dal loro punto di vista, infatti, prima di ricorrere agli stranieri bisognerebbe aumentare l'appetibilità di taluni settori offrendo incentivi mirati. Un ragionamento logico in linea teorica ma di non così facile applicazione. Questo però non significa che non valga la pena tentare, magari lanciando campagne mediatiche per evidenziare quali sono i settori più scoperti nel paese, e offrendo alle aziende sgravi fiscali ad hoc quando assumono un lavoratore locale. 

Il dibattito politico

C'è però un ultimo dettaglio che merita di essere sottolineato: sempre più spesso, e di solito per motivi di propaganda elettorale, si tende a confondere la politica di immigrazione con quella di accoglienza per gli immigrati irregolari. Immigrazione lavorativa e accoglienza dei clandestini andrebbero invece tenute rigorosamente distinte, e gestite con politiche molto diverse, altrimenti sono destinate a fallire.


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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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