Il gran cavallo è azzoppato
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Il gran cavallo è azzoppato

Le elezioni regionali mostrano come l'operazione rottamazione avviata da Matteo Renzi stia vivendo una forte battuta d'arresto

C’è un’altra Italia che ha dimostrato di poter essere forza di governo, che con maturità politica e lucido senso della realtà ha capito che solo l’aggregazione delle forze di centrodestra è garanzia per battere il Pd a immagine e somiglianza di Matteo Renzi. C’è ancora un’altra Italia, oramai superiore al 50 per cento, che non giudica l’offerta politica all’altezza e che diserta le urne. In mezzo a questi due dati ci sarebbero tante altre considerazioni da fare sul risultato delle elezioni regionali.

Mi limito a un paio: la forza dimostrata dal Movimento 5 stelle ci conferma che l’area del malcontento, unita alla bassa affluenza, finisce per essere ancora premiata ma non ha chance di governare. La seconda considerazione è sulla grande affermazione della Lega, che è riuscita a coagulare consensi grazie alla capacità di parlare all’elettorato con messaggi semplici e immediati. Ora si volta pagina.

Matteo Renzi farebbe l’ennesimo errore strategico nel sottovalutare il messaggio giunto dal voto. I suoi "cavalli", ossia i candidati come Raffaella Paita in Liguria e Alessandra Moretti in Veneto, hanno perso e pure assai male. Nessuno degli altri candidati Pd vincenti nelle altre Regioni si può dire di obbedienza renziana, anzi. A cominciare da Vincenzo De Luca in Campania, che ci regalerà adesso fuochi d’artificio e figuracce internazionali dal momento che obbedendo alla legge Severino dovrà essere sospeso entro un mese con decreto firmato dal premier-segretario che ha fatto campagna elettorale nei suoi confronti.

Renzi, per dirla con Silvio Berlusconi, "non è più colui che porta la vittoria". Dopo il 40 per cento alle europee di un anno fa, sbandierato in ogni dove da Renzi come legittimazione a governare pur non essendo stato mai eletto, oggi il Pd è costretto a fare i conti con percentuali anche dimezzate. I risultati in Veneto e Liguria, i due fortini dove Renzi con tutto il suo seguito ci ha messo la faccia più che altrove, sono la cartina di tornasole di una sconfitta cocente: nella prima Regione i consensi sono calati da 900 mila a meno di 500 mila, nell’altra da 323 mila a poco più di 180 mila che lievitano a 240 mila sommando anche il candidato fuoriscito dal Pd.

Con lo sguardo a vincitori e vinti, si può allora serenamente affermare che l’operazione rottamazione avviata da Renzi conosce una fortissima battuta di arresto. Si può addirittura prefigurare un’operazione di controrottomazione, nella quale a rischiare potrebbe essere lo stesso gruppo dirigente del presidente del Consiglio che, stando al risultato elettorale del 31 maggio, manca evidentemente di un radicamento nel territorio. Il centrodestra, a questo punto, ha l’occasione di evolvere verso un raggruppamento unitario in grado di sfidare nel 2018 Renzi (l’orrenda legge elettorale lo impone anche per evitare un ballottaggio tra Pd e 5 stelle) e di coltivare la legittima ambizione di governare l’Italia. Gli errori del recente passato (vedi Ncd o la lista Fitto) stanno lì a dimostrare che è puramente velleitario pensare di incassare i dividendi da una scelta di governo contronatura o, peggio, di essere autosufficienti.

Lega e Forza Italia devono avere la maturità di tenere insieme scontenti e moderati, sulla base di un programma condiviso e di un leader riconosciuto da tutti. Perché, al di là degli entusiasmi di quest’ultima settimana, una regione non fa primavera.

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Giorgio Mulè