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ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Il caso Regeni e la ragion di Stato

L’Italia, oltre a richiamare l’ambasciatore, non può che guardare anche ai propri errori: un'amara riflessione sull'inchiesta sul ricercatore italiano

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Le relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto hanno raggiunto nei giorni scorsi il punto più basso da decenni. Dopo l’incontro di Roma tra gli investigatori egiziani e quelli italiani – e dopo un comunicato rilasciato alle agenzie di stampa dal procuratore di Roma, nel quale si esprimeva l’insoddisfazione dei magistrati italiani per l’andamento delle indagini al Cairo – il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha disposto come noto il richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto, secondo la formula diplomatica dell’esigenza del ritorno in patria per “consultazioni”.

Tutti sappiamo che il richiamo di un ambasciatore è una mossa che prelude all’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Stati sovrani e che denuncia, comunque, una condizione pericolosa di tensione tra questi.

Tutte le menzogne egiziane sul caso Regeni


Dagli anni di Tangentopoli in poi, media e politici del nostro Paese si sono spesso lamentati delle “invasioni di campo” della magistratura italiana negli affari politici. In questo caso, invece, nessuno finora si è stupito del fatto che alla magistratura di Roma è stata addirittura delegata la nostra linea di condotta in politica estera.

La magistratura italiana ha lamentato giustamente l’indisponibilità degli inquirenti egiziani a percorrere i percorsi investigativi pretesi da Roma sul caso Regeni, come la fornitura dei tabulati telefonici. Ma la risposta degli egiziani è stata chiara: “Non li daremo mai”. Secondo il Cairo, infatti, sarebbe incostituzionale fornire agli inquirenti italiani l’analisi dei tabulati, non solo degli indagati, ma di qualsivoglia cittadino egiziano che la mattina del ritrovamento del cadavere di Regeni si è trovato a transitare lungo il tratto di autostrada dov’è stato rinvenuto il giovane ricercatore triestino.

Italia o Egitto: chi ha ragione?
In altri termini, secondo Il Cairo la magistratura italiana, da sempre molto gelosa dei propri “segreti investigativi”, avrebbe preteso un’aperta violazione del segreto investigativo da parte degli inquirenti egiziani, fatto inaccettabile cui si aggiungerebbe in qualche modo anche la pretesa di dirigere le indagini al Cairo.

Si tratta ovviamente di una questione molto delicata, sia sotto il profilo della procedura penale che sotto l’aspetto non secondario della sovranità nazionale. Anche perché il caso s’innesta in una guerra interna in corso tra la polizia e i servizi d’intelligence egiziani. Ovvero tra il ministero dell’Interno del Cairo e la presidenza. Chi ha ragione? Vale forse la pensa ricorrere a un esempio storico.

Nel giugno 1914 a Sarajevo fu assassinato l’erede al trono austriaco, l’Arciduca Francesco Ferdinando, ucciso insieme alla moglie da un estremista serbo, la cui mano venne certamente armata dal capo dei servizi segreti di Belgrado. Immediatamente, l’Austria trasmise alla Serbia un ultimatum in dieci punti, minacciando la guerra in caso di “non accoglimento integrale del testo”.

 Le autorità serbe accettarono nove punti di quel testo e rifiutarono categoricamente solo il decimo, ovvero la richiesta di “intervento delle autorità di polizia austriache nelle indagini sull’attentato”. Questa richiesta, secondo Belgrado violava la sovranità nazionale serba. Il rifiuto serbo di accettazione dell’ultimatum, come noto, ebbe quale conseguenza lo scoppio della prima guerra mondiale.

Il principio delle relazioni diplomatiche
Questo ricordo storico è utile per tenere a mente che le relazioni diplomatiche si basano su convenzioni tra eguali e che queste convenzioni, tra le quali il diritto-dovere di ogni autorità giudiziaria nazionale a operare in piena libertà e indipendenza, non possono essere messe in discussione sotto l’onda emotiva di fatti sia pur gravissimi come l’omicidio di Giulio Regeni.

 Noi certamente non faremo la guerra all’Egitto, ma il precedente di Sarajevo è un monito che dovrebbe suggerire alle nostre autorità politiche di lavorare sempre con freddezza e razionalità. Si aggiunga che se si fosse avuta un’antenna di ascolto al Cairo, se cioè i nostri servizi segreti fossero stati incaricati di costruire per tempo un centro di raccolta informazioni in un Paese per noi così strategico come l’Egitto, se avessero potuto monitorare i nostri connazionali all’estero e il comportamento dei servizi egiziani, forse non saremmo stati così “al buio”, avremmo avuto elementi per poter inquadrare meglio la vicenda e fare pressioni sulle autorità egiziane, senza essere costretti a richiamare l’ambasciatore.

 È vero, siamo stati presi in giro sin dall’inizio. Certo, il colpevole è a piede libero e viene coperto da qualcuno. Sì, gli inquirenti egiziani non sono stati molto professionali. Ancora, l’Egitto è una dittatura che si comporta come tale, tuttavia segue le proprie leggi come noi seguiamo le nostre. E noi stessi riconosciamo questo Paese come un interlocutore politico e un nostro partner economico.

I casi “scottanti” italiani
Oggi l’Italia dà lezioni di moralità all’Egitto, chiama in causa direttamente il presidente Abdel Fattah Al Sisi, pretende giustizia. Ma questo Paese è lo stesso nel quale sono ancora aperti o non hanno trovato piena soddisfazione casi scottanti di pestaggi brutali, rispetto ai quali non è forse più possibile fare piena luce.

 La morte del diciottenne Federico Aldrovandi, ad esempio, ucciso a botte a Ferrara il 25 settembre 2005 da quattro poliziotti, e la morte di Stefano Cucchi, trentenne di Roma che il 22 ottobre 2009, mentre era in custodia “cautelare”, ha perso la vita. Anche sul suo cadavere, come su quello di Aldrovandi, sono state trovate tracce di percosse e le responsabilità della morte non sono ancora state chiarite. Certo, le famiglie Cucchi e Aldrovandi non possono “rompere le relazioni diplomatiche” con l’Italia, ma uno Stato che esige giustizia dalle autorità di un altro Paese, dovrebbe prima fare le pulizie in casa propria.

 Nessuno si è sognato in quei casi di dire che la responsabilità dei due omicidi di cittadini italiani dovesse essere fatta risalire al presidente del Consiglio dell’epoca. Oggi, invece, con molta leggerezza accusiamo Al Sisi di responsabilità diretta e di depistaggi pilotati dall’alto, criticando aspramente la sua dittatura militare.

 Cosa che sarebbe sacrosanta, se non fosse che la nostra collaborazione con la dittatura golpista egiziana si è intensificata da quando lui è al potere, in ottemperanza a una “ragion di stato” che se ne frega altamente di una forma di governo che è oppressiva e autoritaria contro il suo stesso popolo. E contro chi, come Giulio Regeni, non aveva colpe se non quella di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

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Luciano Tirinnanzi