I grandi meriti della Germania
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I grandi meriti della Germania

La Nazionale guidata da Joachim Löw ha vinto perché gioca meglio, ma anche perché ha saputo costruire la vittoria. Ha saputo cambiare, riformarsi, rinascere, esattamente come il Paese. Lo speciale Mondiali

 

Una pacca sulla spalla e via. La Germania ha vinto perché gioca meglio, ma soprattutto perché ha saputo costruire la vittoria. Non in un Mondiale ma in tanti anni. Ha saputo cambiare, riformarsi, rinascere. Abbiamo visto Angela Merkel passare in rassegna i calciatori della squadra campione del mondo distribuendo abbracci e pacche sulle spalle. Un’euforia contenuta. Il compiacimento sobrio del riconoscimento di un merito e di un lavoro comune. I calciatori sfilavano sorridenti senza sberleffi, c’era chi aveva preso pugni e sanguinato, senza lamentarsi ma rientrando subito in campo. C’era un allenatore che non ha mai dato in escandescenze. I tedeschi non saranno simpatici, ma pianificano i risultati e li conseguono. Con metodo. Con sacrificio, anche se non danno a vederlo. In silenzio (senza il contorno di gossip che si sostituisce alla sostanza). La squadra che ha espugnato lo Stadio di Rio, il Maracanà, è solida. Specchio di un paese che funziona. Che ha accolto e risposto alla sfida della globalizzazione e, in virtù del lavoro che ha fatto, ha potuto battere il team di un paese che è la punta di diamante dei Brics (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, la “B” sta per Brasile), così come i virtuosismi personalistici alla Messi numero 10 argentino. Un paese è anzitutto una squadra. E a vincere è la squadra, non il solista. E, NB, la Germania indossa e fa vincere i colori dell’Europa.  

Ma c’è di più. La Germania del Maracanà è una Germania multietnica e multiculturale, una Germania che ha assimilato e integrato l’apporto dei suoi immigrati. Una Germania giovane di età, e che sui giovani ha puntato con una politica illuminata dello sport (ma non solo), con investimenti di centinaia e centinaia di milioni. Non c’è tra i giocatori tedeschi qualcuno che polemizzi via Internet puntando alla Balotelli un fucile contro nemici veri o immaginari, non c’è la passione un po’ narcisista (un po’ tanto) dei tatuaggi. La maglia è in fondo bianca (grigia?). Non c’è il cicaleccio a uso dei media che si fa negli spogliatoi e il giorno dopo è spiattellato su tutti i giornali. Non c’è un dietro le quinte che non resti dietro le quinte e non sia funzionale alla vittoria.

Forse, per una volta, invece di antipatizzare con la Germania, invece di dirci quanto siano freddi e senz’anima (che poi, naturalmente, non è vero), o arroganti come hanno dimostrato di non essere, dovremmo considerarli un modello. E prendere esempio. Un bel bagno di umiltà, ci vorrebbe! Di calvinismo e semplicità. Non si vive (e soprattutto non si vince) di gossip, arroganza e piagnistei.  

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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