Guida al prossimo bombardamento USA in Iraq
EPA/MARTIN SIMON / POOL
News

Guida al prossimo bombardamento USA in Iraq

Alcune precisazioni sul possibile nuovo intervento in Iraq, che coinvolge tanto l’Iran quanto la Siria e che l’Occidente stavolta ha più facilità a digerire. Parola di Tony Blair

 Lookout news

“Bè, [gli attacchi aerei, ndr] non sono la risposta completa, ma possono costituire una delle opzioni più importanti per riuscire ad arginare la marea e fermare il movimento di persone che se ne vanno in giro su furgoni e camionette a terrorizzare la popolazione. Quando ci sono persone che uccidono e compiono questi omicidi di massa, sai che tutto questo dev’essere fermato e allora si fa quel che si deve”.

 

È il pensiero del Segretario di Stato americano, John Kerry, affidato a un’intervista con Yahoo! News durante la quale si chiedeva al titolare degli Affari Esteri quanto concreta fosse la possibilità che gli Stati Uniti lancino attacchi aerei su obiettivi iracheni. E la risposta sembra piuttosto solida. Anche se la Casa Bianca in passato ci ha abituato a grandi soprese.

 

Come lo stop ai bombardamenti sopra Damasco, in Siria, dati per certi il 31 agosto scorso dopo che il presidente Obama aveva tracciato la famosa “red line” (che il dittatore siriano Assad aveva superato con gli attacchi chimici) e poi fermati all’ultimo momento dopo l’intervento in diretta tv dello stesso Obama che, affidando la decisione al voto del Congresso, di fatto si rimangiò la parola.

Quella decisione non solo creò vero sconcerto e sollevò malumori tra gli alleati - vedi la Francia di Hollande, all’oscuro di tutto fino a tre ore dal raid - ma lasciò addosso anche la sensazione strisciante, se non la certezza, che il discorso non si sarebbe chiuso in quel modo e che prima o poi la questione sarebbe saltata nuovamente fuori. Infatti, eccoci tornati al punto di partenza a commentare un nuovo possibile attacco, dopo soli dieci mesi ma con molte migliaia di vittime in più tra Iraq e Siria. E alcune significative differenze.

 

Le differenze rispetto al passato
Primo, il Paese da bombardare non è la Siria ma il confinante Iraq, anche se per certi versi non vale più la logica di due confini distinti, avendo gli eserciti irregolari che muovono guerra a questi Paesi (gli stessi in entrambi i teatri) cancellato la linea di demarcazione tra i due territori.

Secondo, stavolta non si bombarda per attuare un “regime change” spodestando un tiranno, ma per impedire che le milizie islamiste sunnite di ISIS (o ISIL o Daesh) conquistino la capitale irachena, Baghdad, oggi controllata da un governo di maggioranza degli sciiti.

 

Terzo, per giustificare questo intervento la Casa Bianca non ha alcun bisogno della “pistola fumante”, dal momento che è manifestamente nelle intenzioni di ISIS conquistare l’Iraq e instaurare un grande Califfato Islamico nel cuore del Medio Oriente, e ISIS stesso fornisce orgogliosamente le prove dei massacri compiuti contro chi gli si oppone nella marcia verso la capitale.

 

Quarto, e forse più importante, trattandosi di una guerra incardinata nel conflitto religioso tra Islam sunnita e sciita, le opzioni in campo prevedono anche una possibilità per qualcuno politicamente sgradevole, ma certamente sensazionale: cioè che gli Stati Uniti cooperino direttamente o indirettamente con l’Iran sciita, in uno sforzo militare congiunto per fermare i sunniti che minacciano i confini stessi della Repubblica Islamica dell’Iran.

 

Le ambiguità della guerra e le forze in campo
Una posizione, quest’ultima, che si porta dietro non poche ambiguità: anzitutto, coerentemente con i propri interessi, l’Iran è già coinvolto nella guerra in Siria al fianco del regime sciita del presidente Bashar Assad e dunque contro i ribelli sunniti. Mentre, invece, gli Stati Uniti sono al fianco dei ribelli, tra i quali milita però anche ISIS.

 

Secondariamente, per quanto questo fatto possa favorire il dialogo sul nucleare tra l’Iran e i Paesi del 5+1 (Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania), Israele e Arabia Saudita non vedono certo di buon occhio la mossa degli USA di voler fare un “patto col diavolo” con il loro più grande nemico.

 

Né tantomeno questi ultimi salutano con favore una guerra dalla forte componente religiosa a trazione sciita iraniana, che potrebbe modificare sostanzialmente gli equilibri futuri nell’intero Medio Oriente e portare gli sciiti in una posizione di forza nello scacchiere mediorientale. Anche Hezbollah, principale nemico di Israele insieme all’Iran, è sciita, mentre i sauditi sono la più forte nazione sunnita delle Penisola Araba.

 

Fatto sta che sia l’Iran sia gli Stati Uniti hanno già schierato sul campo circa cinquecento uomini a testa. Teheran ha inviato in Iraq il suo miglior uomo, il Generale Suleimani, a capo della Guardia Rivoluzionaria (nonché nella lista delle persone soggette a sanzioni dell’UE per il coinvolgimento nel fornire equipaggiamento e supporto al regime siriano) affinché coordini e aiuti le truppe irachene nel combattere i miliziani dell’ISIS.

 

Washington, invece, ha inviato nel Golfo Persico la portaerei militare George H.W. Bush (quale scelta più appropriata?) con a bordo un contingente di 500 marines pronti a sbarcare, mentre oltre duecento sarebbero già a Baghdad per difendere l’ambasciata USA e sostituire il corpo diplomatico evacuato.

 

Il ritorno di Tony Blair
Insomma, dopo il 1991 e il 2003, l’America si ritrova ancora là, in quell’Iraq mai pacificato dove potrebbe andare in scena il terzo tempo di una guerra assai sporca. E dopo la nave dedicata a Bush padre non poteva mancare Tony Blair, l’ex premier britannico che tanto si spese per affiancare il presidente americano George W. Bush nella ricerca - inutile e infondata - delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

 

Questo il pensiero di Blair oggi: “Abbiamo tre esempi di strategia occidentale per operare un regime change nella regione. In Iraq, abbiamo deciso di rimuovere Saddam, l’abbiamo fatto e abbiamo lasciato i soldati sul terreno per la ricostruzione. L’intervento si è rivelato molto duro e oggi il Paese è di nuovo a rischio. In Libia, abbiamo richiesto il regime change, abbiamo rimosso il regime con un intervento aereo evitando di mandare truppe sul terreno e ora la Libia è in preda all’instabilità e alla violenza, ha esportato molti guai e molte armi in tutto il nord Africa e anche più giù. In Siria abbiamo richiesto il regime change, non abbiamo fatto nulla e ora è lo stato messo peggio di tutti”.

 

L’unica certezza, in questa ridda d’interessi e contraddizioni, è che nessuno vuole che l’ISIS, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, si appropri della Mesopotamia, mentre molti già spingono per dividere il Paese in due. O in tre, se qualcuno si decide a considerare anche il Kurdistan.

I più letti

avatar-icon

Luciano Tirinnanzi