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Guerra all'Isis: il ruolo dell'Italia che non conta

Il premier Renzi ha scelto: niente guerra. Non siamo in grado e il nostro interesse è sulla Libia. Così, restiamo isolati e più deboli

È sulla politica estera che si vede finalmente la differenza più profonda tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Ai tempi della guerra contro l’Iraq, il Cavaliere tentò di dissuadere George W. Bush dall’impresa.

Ricordo che prima di partire per la visita al Ranch di Crawford dei Bush, la cosiddetta “Casa Bianca dell’Ovest”, Berlusconi si proponeva (senza sperarci troppo) di convincere l’amico Bush a “non fare il cowboy”. Ma nel momento in cui dovette prendere posizione, non ebbe esitazioni: scelse di appoggiare Tony Blair e gli Stati Uniti. Lo fece senza coinvolgere più di tanto l’Italia in una spedizione che si sarebbe dimostrata vittoriosa sul terreno (Saddam fu defenestrato), ma perdente alla lunga per i troppi errori commessi nel dopoguerra dall’amministrazione americana. Washington avrebbe vinto la guerra ma perso la pace.

Adesso che la sfida all’Occidente è sotto molti aspetti perfino più insidiosa ed è terribile, perché il Califfato è uno Stato di fatto e al tempo stesso può far leva sulla quinta colonna di integralisti autoctoni, europei, pronti a farsi esplodere nelle nostre città, e in assenza di una leadership americana nella guerra al terrore (Obama pratica il disimpegno, il rifiuto di guerreggiare sul terreno e si concentra sul fronte commerciale del Pacifico), Renzi ha fatto anche lui la sua scelta: niente guerra, per non perdere il consenso tra gli italiani (che la guerra non la vogliono).

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Renzi dice, semplicemente, che l’Italia è già sufficientemente impegnata con i suoi 5.700 uomini sparsi in 25 missioni in 18 Paesi (ma soprattutto in Libano, Iraq e Afghanistan). Dice che l’Isis va distrutto ma che la guerra non si vince solo con le armi, piuttosto con la cultura (affermazione che suona retorica rispetto agli impegni concreti che la Francia sta chiedendo a alleati come Germania e Gran Bretagna e a non alleati come la Russia di Putin).

L’unica, vera arma che Renzi imbraccia per difenderci dal Califfato è l’Intelligence. E più ancora dell’Intelligence, la politica. Va anche detto che c’è un ridimensionamento inevitabile del ruolo dell’Italia nel disegno strategico di Renzi. L’Italia non è in grado, infatti, di operare in tutti gli scenari internazionali con la forza di una grande (neppure media) potenza. I nostri interessi strategici sono concentrati nel Mediterraneo (ed è qui che si è focalizzato, non a caso, il libro bianco sulla Difesa dato alle stampe dal ministro Roberta Pinotti).

La nostra vera preoccupazione, di sicurezza ed economica, è la Libia, non la Siria, l’Iraq, il Libano o l’Afghanistan.

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Del resto, nulla dobbiamo alla Francia rispetto alla guerra contro il terrorismo, visto che proprio la fuga in avanti di Parigi pregiudicò nel 2011 i nostri interessi in Libia e la nostra sicurezza nel Mediterraneo. Fu il presidente Sarkozy a ordinare l’attacco contro Gheddafi, nostro “amico” e alleato, pur sapendo di colpire gli interessi italiani e con l’unico obiettivo di marcare il territorio e ribadire il primato della Francia in Africa, con la conseguenza di destabilizzare il Nord Africa, l’Africa subsahariana e lasciare il campo libero al Califfato e alla sua politica di franchising globale.

Renzi non ha alcuna intenzione di incrementare in modo sensibile il nostro impegno all’estero, tanto meno condurre una guerra al fianco della Francia contro il Califfato in Siria. E ritiene che soltanto la politica possa prevenire l’estendersi degli attacchi terroristici all’Italia. Non la si può definire una vera e propria neutralità, ma poco ci manca. Il rischio è che l’Italia resti isolata, adesso che perfino la Germania si è rassegnata a inviare i Tornado in Medio Oriente e la Gran Bretagna di David Cameron si prepara a fare una scelta analoga. Il punto è che l’Italia conta oggettivamente sempre di meno. I nostri alleati e i nostri nemici lo sanno.

I primi bombardamenti franco russi in Siria

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EPA/ECPAD
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