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La guerra al cibo Made in Italy, non più carne né pesce

Siamo orgogliosi dei nostri prodotti alimentari ma consumiamo quelli stranieri. Imposti dalla grande industria che punta al cibo standard

Nel 2018 la produzione di olio in Italia è diminuita del 57 per cento. Nello stesso tempo l’importazione di olio dalla Tunisia è aumentata del 150 per cento. In 15 anni abbiamo perso una pianta di arance su tre. Le importazioni di pesce sono aumentate dell’84 per cento negli ultimi 25 anni. L’80 per cento ormai arriva dall’estero: non solo Spagna, Grecia e Tunisia, ma anche Ecuador, Vietnam e Thailandia. Abbiamo perso 6 mila pescherecci e 18 mila posti di lavoro. E siamo rimasti muti come sogliole. Così lo scempio quotidiano è continuato. I pomodori? Vengono dal Marocco. I limoni? Dal Cile. I carciofi? Dall’Egitto. Il riso? Dalla Cambogia. E il latte, ovviamente, dalla Romania. L’unica cosa che rimane made in Italy sono le pive. Ovviamente nel sacco.

Ha fatto impressione a tutti, nei giorni scorsi, vedere il latte versato in strada dai pastori sardi. Così come faceva impressione, qualche mese fa, vedere le montagne di riso invenduto nel vercellese o i pomodori di Pachino che non venivano raccolti nei campi della Sicilia. Ma da noi l’impressione dura un attimo, giusto il tempo di un servizio sul Tg. Poi c’è subito altro cui pensare. Il nostro made in Italy non importa a nessuno. Abbiamo le migliori olive del mondo, ma preferiamo farle arrivare dall’estero. Abbiamo i migliori pomodori del mondo, ma preferiamo farli arrivare dall’estero. Abbiamo il miglior pesce del mondo, ma preferiamo mangiare quello dell’Ecuador. Siamo così orgogliosi dei nostri prodotti che li stiamo distruggendo. Facciamo chiudere le nostre imprese, uccidiamo i nostri coltivatori, decimiamo allevatori e pescatori. E per che cosa? Per portare sulle nostre tavole prodotti che, per la maggior parte, sono meno buoni. E pure meno garantiti.

È stato calcolato, infatti, che i cibi che arrivano da Paesi extraeuropei sono dodici volte più pericolosi di quelli made in Italy. Dodici volte. Il perché è facilmente spiegabile: all’estero non si adottano gli stessi controlli severi che sono obbligatori da noi e spesso si usano veleni che da noi sono banditi. La Coldiretti nei giorni scorsi ha diffuso un menu tipico di prodotti alimentari importati. Mozzarella al perossido di benzoile, olio colorato con la clorofilla, pane cotto con legna tossica, vino adulterato, carne da macelli clandestini e miele tagliato con sciroppi pericolosi. Non vi basta? Ci sono anche le violazioni dei diritti umani: riso birmano frutto di genocidio e banane dell’Ecuador raccolte con lo sfruttamento dei bambini. Il pranzo è servito. Ma solo per chi ha lo stomaco forte.

È chiaro che quando acquistiamo i prodotti dall’estero non mettiamo a rischio soltanto i nostri produttori e la nostra ricchezza: mettiamo a rischio anche la nostra salute. Eppure non se ne parla. Se al contrario se ne parla, si ironizza. Quando nei giorni scorsi ho provato a dire che è stata una sciocchezza aver aumentato le importazioni di latte rumeno dell’85 per cento, facendo crollare il prezzo e riducendo alla fame gli allevatori sardi, qualche benpensante chic ha ironizzato: che vogliamo fare? Dichiarare guerra alla Romania? Come se difendere i prodotti tipici italiani fosse un peccato mortale di imperdonabile superbia sovranista. Mentre invece, forse, sarebbe soltanto buon senso...

Si capisce: le proteste degli agricoltori non sono mai troppo popolari. Non fanno share. Dopo un po’ la gente cambia canale. Chi se ne importa se chiude un allevatore sardo? Chi se ne importa se spariscono le olive della Puglia? E non capiamo che difendendo loro, in realtà, difendiamo anche noi stessi, il cibo che ci arriva in tavola, la nostra salute alimentare. In gioco non ci sono soltanto i residui chimici che infestano oggi i pomodori marocchini o le olive tunisine. In gioco ci sono anche i programmi chimici delle multinazionali, che non vedono l’ora di spazzare via la resistenza dei produttori locali per imporci il loro Pranzo Unico Globale, perfetto per la grande industria, con produzioni su larga scala, assai più economiche e redditizie. La direzione è segnata: cibo standard, mode etniche uniformi, piatti riproducibili in vitro, aromi sintetici e gusti serializzati. E per finire anche grilli al curry e locuste al vapore, anch’esse facilmente allevabili in laboratorio. Non è perfetto? Il pranzo è servito. E noi, di questo passo, arriviamo in un attimo ai bolliti. © riproduzione riservata

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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