L'insostenibile assenza del Quirinale
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L'insostenibile assenza del Quirinale

Fiaccato dalla campagna sulla trattativa Stato-Mafia, Napolitano non poteva permettersi una iniziativa pacificatrice e si è limitato al suo dovere istituzionale, prigioniero della sua impotenza

Al netto del trash della trasmissione televisiva che origlia e diffonde un’insulsa chiacchiera privata («... mi dicono che...»), mettendo la solita zizzania, i rapporti tra Silvio Berlusconi e il capo dello Stato tanto buoni non possono essere. Giorgio Napolitano è accusato dal partito delle manette di avere sistematicamente tirato fuori dai pasticci l’odiato Cavaliere nero. Come il barone di Münchhausen, il Cav. si è spesso cavato dai guai tirandosi da solo su per i capelli, miracolo dopo miracolo, nel segno della sospirata invincibilità. Napolitano si è limitato al suo dovere istituzionale, senza parteggiare contro come hanno fatto in tanti, compreso il presidente di sezione cassazionista dottor Antonio Esposito, cercando invece di costruire un difficile equilibrio tra la squillante anomalia del berlusconismo, anomalia di stile e di sostanza, e le regole spesso ipocrite e omertose dell’establishment, dei cosiddetti poteri neutri in Italia e in Europa.

L’ultima sua mossa trasversale era stata quella di avallare ufficiosamente il lodo Violante, quel tentativo di rinviare alla Corte costituzionale la questione della decadenza secondo la legge Severino, tentativo che era l’ultima spiaggia della politica prima del tuffo nella tempesta, e che è costato all’ex presidente della Camera, ex magistrato ed ex coordinatore del partito dei giudici, da tempo convertito al garantismo giuridico, una letterale lavata di capo, un gavettone da parte di un suo compagno di partito, e un regolare processo ideologico nella federazione torinese del Pd. «Non capisco perché mi massacrate quando pongo una questione di democraticità delle procedure» disse Violante prima della condanna definitiva (la sua, non quella di Berlusconi).

Ma in definitiva Napolitano è impotente. Con l’accordo di Berlusconi, nel novembre del 2011, fece quel che voleva e fu insignito del titolo di king George. Ma questa volta Berlusconi non poteva aiutarlo a fare politica e a mediare in modo efficace, a offuscare lo scenario della sottomissione parlamentare al partito dei giudici, perché ne andava di mezzo la sua stessa identità politica e civile, e dunque le soluzioni non potevano che essere radicali, «scandalose»: o i giudici padroni del campo o la loro sconfessione.

Il suo ragionamento non tanto disperato, quanto realista, era chiaro: o la massima autorità della Repubblica è in grado di fermare l’assalto a me e alla politica oppure devo chiedere ancora una volta il giudizio del popolo elettore. John Locke chiamava questa ultima risorsa della libertà, contro comportamenti tirannici e ingiusti (del potere giudiziario e dei suoi servi, in questo caso), «l’appello al cielo», una forma di resistenza che prevedeva perfino mezzi extralegali, di cui peraltro non c’è traccia in una crisi di governo parlamentare e in una richiesta di voto popolare. Indebolito dalla campagna intermittente sulla trattativa Stato-mafia, in cui si è difeso da prode contro i manettari, ma è rimasto mascariato dai loro insulti, che continuano, il capo dello Stato una seria iniziativa in proprio di pacificazione e di giustizia non poteva intraprenderla, non poteva permettersi lo scandalo evangelico, il taglio del nodo di Gordio. Poteva, astrattamente, ma non nella realtà politica in cui si trova.

A questa impotenza del Quirinale, e alla stretta in cui Berlusconi si è trovato, solo con una decina di milioni di elettori, ha poi corrisposto l’inesistenza del Pd, ruota di scorta dei manettari in Parlamento, e un governo dei piccoli capace al massimo di giocare con il pongo. Di politica Letta Enrico non ha mai parlato. Si è rifugiato in un pilatismo da bambini. Non vedo non sento non parlo: questione personale del contraente

il patto di maggioranza e sopravvivenza del governo vanno tenute separate, confido in Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello. Ma si può? Si può assistere all’erezione di un patibolo politico, ché il voto in Senato è un voto politico, non una presa d’atto giuridica, senza capire che ci saranno conseguenze, che la vita non continuerà come prima se uno dei capi della larga coalizione viene abbandonato al suo destino di linciaggio? Ma la politica è occhio, non dico visione, è senso dell’opportunità, è rischio e intelligenza nello scegliere il momento adatto per agire. Agire politicamente non fa parte però del vocabolario del governo dei piccoli, governo di piccole retoriche, di grandi rinvii e di molta lagna sulla stabilità. Si è visto come certa chiacchiera inutile ha protetto la stabilità.

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Giuliano Ferrara