Un Paese in attesa di giudizio
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Un Paese in attesa di giudizio

Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga

Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste.

Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele).

Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio.

Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti.

Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva.

Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana.
E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita.

L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari.

Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.

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Giorgio Mulè