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Garlasco, la condanna di Alberto Stasi non fa giustizia

L'imputato è stato condannato a 16 anni per l'omicidio di Chiara Poggi. Ma sette anni dopo, tra perizie e scempi investigativi, i dubbi rimangono

Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni di carcere per l'omicidio dell'ex fidanzata Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007. Questa la sentenza emessa dalla Corte d'Assise d'appello di Milano al termine di una camera di consiglio durata 5 ore. A Stasi non è stata comminata l'aggravante della crudeltà, contestata dalla procura generale, che aveva chiesto una pena di 30 anni.

È l’esito di un percorso processuale incerto e aperto fino all’ultimo. Una storia giudiziale lunga più di sette anni, che si è combattuta senza esclusione di colpi tra difesa e parte civile, la quale finalmente ha visto riconoscere la bontà delle sue argomentazioni quando tutto sembrava perso dalla Cassazione, che ha azzerato le prime due sentenze di assoluzione e riaperto la partita. Una partita in cui un ruolo centrale l’ha giocato la prova scientifica, chiamata a mettere pezze sulle diverse toppe dell’indagine, ma che come spesso accade nei delitti di sangue si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.


Colpevole o innocente?

Colpevole o innocente? Mentre noi ci dividiamo sulla base di sensazioni o antipatie, i giudici di Milano riuniti in camera di consiglio hanno provato a cancellare dalla loro mente la figura di Alberto Stasi, con i suoi silenzi e il suo glaciale distacco, per concentrarsi sugli elementi oggettivi. Uno a uno, li hanno stesi sul tavolo, pesati singolarmente, poi valutati nell’insieme fino a porsi la domanda fatidica: gli indizi raccolti dalla procura sono talmente forti, talmente univoci, talmente concordanti da essere prova di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio?

Sì o no? Su questo passaggio si è giocato tutto il processo. La nostra legislazione penale prevede espressamente che “nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. Il nostro sistema giuridico, per fortuna di natura garantista, stabilisce che per poter condannare un imputato bisogna che nel processo sia stata raggiunta l’assoluta certezza della responsabilità penale dell’imputato.

Certezza assoluta, al cento per cento. Mentre se alla fine del dibattimento prevale un dubbio, fosse pure minimo, allora si deve assolvere. Se i giudici non si comportassero in questo modo e si lasciassero trasportare dall’onda dell’emozione popolare, allora infrangerebbero la legge.

Ora, guardando ai sette anni di indagine e ai diversi gradi di giudizio che si sono susseguiti fino a oggi, si può dire senza ombra di dubbio che il percorso processuale a carico di Alberto Stasi abbia permesso di raggiungere una prova di colpevolezza al cento per cento? Si può escludere con certezza assoluta un piccolo dubbio sul fatto che sia stato lui ad assassinare la fidanzata all’interno della villetta di famiglia a Garlasco? La risposta è no, esiste anche più di un piccolo dubbio, ed è il motivo per cui Alberto Stasi doveva essere assolto.


Non può non essere stato lui

Non può non essere stato lui. È stato questo  il principio che fin dall’inizio ha ispirato e guidato le indagini a carico dell’ex studente della Bocconi. Un concetto eplicitato alla perfezione nella famosa prova scientifica della camminata di Stasi all’interno della casa e che è stata oggetto di numerose perizie. Per l’accusa e la parte civile, è impossibile che Stasi entrando in quella casa, dopo aver scoperto il cadavere insanguinato della fidanzata riverso in fondo alle scale, non si sia sporcato di sangue le suole delle scarpe.

Da qui la convinzione che Stasi quella mattina non sia affatto entrato nella villa di via Pascolii, dove fece soltanto una sorta di sopralluogo per poi dare l’allarme, e quindi “ha raccontato agli inquirenti quel che sapeva per essere stato lui stesso l’artefice dell’omicidio”. Per la difesa di Stasi, invece, proprio questa teoria sarebbe la dimostrazione di una indagine effettuata a senso unico. Alberto potrebbe non essersi sporcato le scarpe, e in ogni caso, essendo il sangue già essiccato e le scarpe consegnate ai carabinieri la mattina dopo, le suole potrebbero essersi ripulite e le tracce ematiche disperse durante la camminata sull’erba bagnata e sul vialetto di casa Poggi.

Poi c’è la questione della bici e della testimonianza della vicina di casa, che racconta di aver visto una bici nera da donna appoggiata al muro della villetta di via Pascoli, bici che non corrisponde a quelle della famiglia Stasi. Poi c’è la storia dei pedali, sui quali è stato rintracciato il dna della vittima, della bici di colore bordeaux di Alberto, che secondo la parte civile sarebbero stati sostituiti. Poi ci sono i graffi sul braccio di Alberto, notati dai carabinieri che chiedono spiegazioni ma non fanno una foto e non mettono nulla a verbale. Infine c’è la traccia di Stasi trovata sul dispenser del sapone liquido in bagno. E qui la questione si fa delicata. Perché emerge una delle tanti grandi pecche di una indagine che almeno nella prima fase è stata condotta con superficialità e che ha finito per togliere spessore agli elementi raccolti in seguito.

Le tracce dell'assassino cancellate

L’assassino aveva lasciato le sue impronte sul corpo della vittima, quattro ditate intrise di sangue stampate sul pigiama rosa di chiara all’altezza della spalla sinistra. Erano ben visibili in una foto mostrata durante il processo dalla procura generale. Tracce che si sarebbero potute analizzare per provare a ricavarne, con un pizzico di buona sorte, le impronte digitali dell’assassino o magari un dna misto con quello di Chiara, che sarebbe stato schiacciante e risolutivo al pari di quello di Bossetti sul corpo di Yara.

Invece le ditate vennero maldestramente cancellate, poco dopo essere state fotografate, per l’inadeguatezza e l’imperizia degli addetti della medicina legale e delle pompe funebri che si occuparono della ricomposizione e vestizione del cadavere. Al termine di quelle operazioni, al posto delle macchie c’era un pigiama completamente intriso di sangue.

A parte lo scempio investigativo, per la procura generale quella sarebbe la prova che l’assassino, dopo aver scaraventato Chiara giù per le scale, è andato in bagno a lavarsi le mani con il sapone, dove è stata trovata la traccia di Alberto Stasi. Per la difesa si tratta di una prova senza efficacia, dato che Alberto frequentava quella casa e potrebbe aver lasciato traccia la sera prima. Una posizione, questa, fatta propria dai precedenti giudici.


Ha ragione la difesa? Si è trattato di indagini condotte a senso unico? Chissà. Certo, qualche dubbio viene. Per esempio l’esame del dna trovato sotto le unghie di Chiara. Dopo l’analisi del tessuto, il consulente tecnico incaricato scrive nella perizia che non si sente di poter affermare con certezza che sia quello di Alberto, come non può escludere che lo sia. Forse sarebbe stato più corretto scrivere diagnosi inefficace, punto, fine della storia. E poi raccontare ai giornalisti di non avere elementi sufficienti per risalire al dna di un abitante del pianeta terra.

Alla fine, anche per i giudici della corte d'Assise d'appello di Milano non può non essere stato lui l'assassino di Chiara Poggi. Un principio che da oggi fa giurisprudenza. 

Un'immagine di Chiara Poggi, uccisa il 13 agisto del 2007, (Credits: LaPresse)

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Carmelo Abbate