La Francia vuol tornare in Libia. E l'Italia?
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La Francia vuol tornare in Libia. E l'Italia?

Parigi intende organizzare una nuova spedizione militare a Tripoli. Ma tutti si defilano

Per Lookout news

“La Libia è la mia preoccupazione fondamentale” ha affermato il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, in un’intervista al quotidiano francese Le Figaro l’8 settembre, allo scopo di creare i presupposti per una coalizione internazionale che intervenga militarmente in Libia. Ormai questo è “un Paese completamente destrutturato” e soprattutto rappresenta “la porta dell’Europa, la porta dell’Africa” per il terrorismo internazionale. Volendo citare il neo-belligerante Barack Obama, si potrebbe dire che anche la Libia è ormai un “safe heaven” per i cosiddetti terroristi islamici.

 In questo Paese, infatti, i jihadisti mantengono intatte le loro reti relazionali, comprano armi dal mercato nero e continuano a gestire anche gli altri traffici cui sono abituati, come la tratta di esseri umani, i rapimenti e anche lo smercio di droga, seppur in misura minore. Non a caso, infatti, che il titolare del Quai d'Orsay nell’intervista citi anche due noti signori della guerra, che da anni imperversano nel Sahel e più in generale in tutta l’Africa del Nord: “Capi come l’emiro Drougdal o Mokhtar Belmokhtar transitano di lì regolarmente” afferma Le Drian.

 Abdelmalek Droukdel è il capo di AQMI, Al Qaeda nel Maghreb Islamico, gruppo terroristico che la Francia ha già combattuto in Mali nel 2013 (“Operazione Serval”), mentre Mokhtar Belmokhtar è la primula rossa di origine algerina che oggi gestisce il mercato nero in tutta la regione e che ha manifeste connessioni con il mondo della jihad islamica, pur impersonando più la figura del predone che quella del combattente islamico. Entrambi sono da tempo nel mirino del DGSE, il servizio segreto di Parigi, e rappresentano uno dei principali obiettivi-simbolo per la Francia. Anche perché, con la caduta del regime di Gheddafi, sono state liberate tutte quelle “forze del male” che prima erano tenute sotto il tacco dal colonnello-dittatore, mentre ora imperversano liberamente nella regione.

La strategia dell’Italia in Libia ancora non si conosce e, stante le dichiarazioni del premier Matteo Renzi (che pare sinceramente orientato a volersi occupare di Libia), nulla si muove

Una seconda guerra per la Libia
Il ministro Le Drian ci tiene così tanto a ribadire questo concetto, che dimentica un passaggio fondamentale: l’ammissione di colpa sull’infelice scelta di defenestrare Mu’ammar Gheddafi da parte del governo francese e di quello britannico. Causa scatenante del caos odierno è, infatti, palesemente la prematura fine del colonnello.

 I risultati del regime change sono sotto gli occhi di tutti: la Libia non ha più una leadership, il rischio di un’interruzione delle forniture petrolifere verso l’Europa è concreto, e tutto il territorio nazionale è attraversato da faide tribali ed egoismi settari, tali per cui una parte del Paese è finita sotto il controllo delle milizie islamiche sunnite di Ansar Al Sharia e un’altra porzione è sotto il controllo di Khalifa Haftar, il golpista libico che Daniele Raineri sul Foglio ha soprannominato il “generale free lance”, il cui esercito non riesce però a imporsi sugli islamisti ed è anzi già stato sconfitto a Bengasi e a Tripoli. Pertanto, se la Libia è fuori controllo, secondo l’Eliseo serve un nuovo intervento militare, che rimedi al danno e contempli l’aiuto delle potenze alleate.

 Ma non è un déjà vu, questo dell’Occidente? Non ricorda un po’ il modus operandi americano che, alla data dell’11 settembre 2014, ha annunciato il ritorno per la terza volta sul luogo del delitto, l’Iraq, dopo aver defenestrato un dittatore che fino all’intervento militare USA aveva garantito il mantenimento dello status quo e una convivenza pacifica tra sunniti e sciiti? Non importa molto questo ragionamento alle cancellerie occidentali. Il punto è risolvere hic et nunc la questione. Perciò Parigi, che sponsorizza la seconda guerra in Libia in meno di quattro anni, è in cerca di alleati per finire il lavoro. Ma non molti sembrano intenzionati a seguire la Francia.

Nessuno vuol partecipare alla coalizione internazionale
Il Regno Unito, sodale di Parigi in tante battaglie, in questi giorni ha ben altro cui pensare: vedi il referendum per l’indipendenza della Scozia del 18 settembre, una “bomba a orologeria” pronta a esplodere in faccia al governo di Cameron, tale che potrebbe essere fatale tanto al suo governo quanto al Regno intero, in caso di vittoria degli “Yes”. Tralasciando le questioni economiche, se Edimburgo si dovesse staccare da Londra, chi dei due siederà al seggio ONU e con quale dicitura? Che fine faranno i patti con la NATO? Gli scozzesi entreranno nell’Alleanza Atlantica? Che ne sarà delle tre basi operative della Royal Navy in Scozia e, soprattutto, dei sottomarini nucleari? Interrogativi la cui risposta non è semplice e che stanno infiammando il dibattito politico interno, rallentando qualsiasi decisione di Downing street circa nuove iniziative militari del Regno - per il momento - Unito.

 Gli Stati Uniti, invece, sono già impegnati sui fronti siriano e iracheno contro lo Stato Islamico. Washington potrebbe dare una mano, in virtù di quella scaltra scelta di parole usate dall’ex avvocato e oggi inquilino della Casa Bianca, durante lo speech sul nuovo intervento USA in Iraq: Barack Obama, infatti, ha autorizzato raid aerei contro lo Stato islamico “dovunque si trovi” e quest’affermazione potrebbe giustificare anche un’azione in Libia agli occhi del Congresso, data la teorica affiliazione degli islamisti di Bengasi al Califfato Islamico. Ma, al momento, questa resta solo un’ipotesi che il Pentagono tende a non considerare.

 L’Algeria, storicamente legata a doppio filo con Parigi, è la cartina di tornasole delle alleanze possibili, nonché Paese strategico per ovvie ragioni di confine. Secondo fonti turche, Algeri starebbe valutando l’apertura dello spazio aereo per consentire eventuali bombardamenti franco-americani e il trasporto logistico delle truppe. Ma ancora non c’è niente di certo né filtrano indiscrezioni.

L’Italia snobba la Libia
Così, resta Roma. Il nostro Paese, che dovrebbe essere in prima linea nel monitoraggio degli accadimenti in Tripolitania e Cirenaica, per il momento nicchia: alle insistenti richieste dei rappresentanti francesi, risponde in via ufficiosa che “non sono in previsione azioni militari”. Tutt’al più, il ministero della Difesa potrebbe fornire aiuti e stanziare un budget. Non si può essere più generici, insomma. Ma, alla resa dei conti, la strategia dell’Italia in Libia - ammesso che vi sia - ancora non si conosce e, stante le dichiarazioni del premier Matteo Renzi (che pare sinceramente orientato a volersi occupare di Libia), nulla si muove.

 Insomma, un magro bottino per Francois Hollande, che in questo momento è considerato il presidente meno gradito dalla Francia, assediato dagli scandali “amorosi” (complici le sue ex), in debito di ossigeno per una politica economica inefficace e che ora è finito nel mirino anche dei difensori dell’austerity a Bruxelles, per l’annuncio che la Francia sforerà l’obiettivo di rientrare nel limite del 3% del deficit per il 2015 e anche per il 2016.

 Insomma, che ne è della grandeur francese? Possibile che all’altezzosa Parigi sia rimasta solamente la Françafrique? E, anche in quel caso, avrà Parigi la forza politica di agire da sola in un’area di crisi di capitale importanza per il Mediterraneo?

 

 

 

 

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Luciano Tirinnanzi