Francia: Nantes, i suicidi e le immolazioni
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Francia: Nantes, i suicidi e le immolazioni

L'onda nera della crisi si abbatte sulla Francia. Terrorizzata dall'effetto domino della tragedia di Nantes

Per quanto le statistiche di lungo periodo confermino un'evoluzione positiva del tasso di suicidi nell'Europa a 27, con una riduzione di quasi due punti percentuali (11,8-10,2) tra il 2000 e il 2010, le notizie di cronaca dovrebbero indurci a pensare il contrario. Perché da quando è scoppiata la crisi economica e ancora di più da quando i governi dell'Unione hanno convinto gli europei di non essere in grado di risolvere gli squilibri finanziari che si sono accumulati negli ultimi anni, il numero di suicidi nei paesi in maggiori difficoltà è rapidamente aumentato. Alla fine del 2012 si parlava di un incremento del 24% in Grecia, del 16% in Irlanda e, addirittura, del 52% in Italia.

Eppure, se l'aumento del tasso di suicidi in società in cui austerità, disoccupazione, pressione fiscale e assenza di reali prospettive di miglioramento poteva essere considerato sotto certi aspetti prevedibile, ben più difficile da spiegare è quello che sta succedendo in Francia. Dove negli ultimi tre anni si sono tole la vita 750 persone e altre 10mila hanno tentato di farlo. E dove negli ultimi tempi la disperazione assoluta ha portato diversi cittadini a compiere atti ancora più estremi, come l'auto-immolazione.

Qualsiasi lettore posto di fronte al titolo di una notizia che riferisce di uomini o donne che si sono dati fuoco sarebbe indotto a pensare che la tragedia in questione si sia consumata in Tibet, o nelle regioni cinesi a maggioranza tibetana. Dove infatti è stato recentemente superato il macabro traguardo delle cento immolazioni in poco più di due anni. E poco lontano dal Vietnam, paese dove, cinquant'anni fa, il monaco buddista Thich Quang Duc si immolò per primo, per protestare contro l'oppressione buddista messa in atto dal suo governo.

Ebbene, da allora sono stati almeno 3mila gli uomini e le donne che hanno scelto di lasciarsi consumare vivi dalle fiamme nella speranza che questo gesto estremo potesse aiutare altri a portare avanti l'idea cui avevano deciso di dedicare la loro vita. Come la libertà religiosa, nel caso di Quang Duc, o l'indipendenza, nel caso dei tibetani.

La settimana scorsa, però, è stato un francese disoccupato di 43 anni a darsi fuoco davanti a un ufficio di collocamento a Nantes, nell'ovest del paese. Un uomo disperato che prima di togliersi la vita ha cercato in tutti i modi di attirare l'attenzione su di se' e sull'ingiustizia di cui era rimasto vittima. Scrivendo ai media locali e ai funzionari dell'ufficio cui aveva chiesto un sussidio di disoccupazione che presto sarebbe arrivato il suo "grande giorno". Quello in cui sarebbe andato a "darsi fuoco davanti all'ufficio di collocamento": "Ho lavorato 720 ore e per legge ne bastano 610 per ricevere i sussidi. E invece la mia domanda è stata respinta".

Ancora più drammatico è però scoprire che qualla di Nantes non è una tragedia isolata, perché dal 2011 ad oggi sono più di una dozzina i francesi che hanno tentato, a volte con successo, di darsi fuoco. O che questi episodi drammatici si siano verificati nel Nord come nel Sud del paese, tra gli operai come tra i docenti universitari e i dirigenti d'azienda. E che abbiano coinvolto sia disoccupati sia persone che, a causa della crisi, si sono ritrovate a dover sostenere un carico eccessivo di lavoro, e di stress.

Il sociologo francese Emile Durkheim è stato il primo a rifiutarsi di interpretare il fenomeno del suicidio come effetto di un mero disordine individuale, collegandolo piuttosto al contesto socioculturale in cui il soggetto si muove. Per capire quello che sta succedendo in Francia, però, dovremmo aggiungere a questa idea ormai consolidata che le immolazioni hanno un significato e un impatto sulla società molto diverso da quello che può avere un suicidio. Il secondo è un atto prevalentemente individuale, sintomo di un fortissimo malessere, di un disagio che chi sceglie di togliersi la vita non riesce più a sopportare. Il primo, invece, è un atto ben più violento. Un gesto di rabbia con cui si accusa e si condanna in maniera espicita una società, un governo, un modello di sviluppo che non è riuscito a prendersi cura della collettività che ad esso fa riferimento. E che rischia di innescare un tragico e al contempo pericolosissimo effetto domino in un'Europa smarrita di fronte alle conseguenze di una crisi che ormai non è più solo economica, ma anche politica e sociale.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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