Falcone e Borsellino, il ricordo del generale Mori
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Falcone e Borsellino, il ricordo del generale Mori

L'ex comandante del Ros dei Carabinieri, accusato dai pm di aver  trattato con la mafia, rompe il silenzio. E fornisce per la prima volta  uno straordinario ritratto dei due magistrati uccisi dalla mafia: " Falcone un siciliano hidalgo, Borsellino un siciliano arabo"

Nel 1993, con il “capitano Ultimo” Giuseppe De Donno, arrestò Totò Riina, il capo dei capi. Diciannove anni dopo al generale Mario Mori, ex comandante del Ros dei Carabinieri, la procura di Palermo ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio con l’infamante accusa di aver trattato con la mafia per far cessare le stragi. Una trattativa che sarebbe stata intavolata dopo la morte di Giovanni Falcone e per la quale, secondo la tesi degli inquirenti, sarebbe stato sacrificato Paolo Borsellino.  Ecco, in esclusiva, il ricordo e il giudizio che il generale Mario Mori ha dei due magistrati, rivelato, per la prima volta, nel corso della presentazione milanese del libro “Eroi silenziosi” dell’ex colonnello del Ros Angelo Jannone. Davanti ad una platea di “amici”, con molti ufficiali e graduati dell’Arma, incalzato dalle domande del giornalista Piero Colaprico, il generale Mori ha rotto il silenzio. Queste sono state le sue parole.

Falcone era un personaggio strano. Io faccio sempre un esempio per descriverlo, glielo feci anche a loro, a Falcone e Borsellino. Che prima mi guardarono un po’ perplessi, poi si misero a ridere: Giovanni Falcone e Paolo Borsellno sono due tipologie tipicamente siciliane, ma i due personaggi erano proprio agli antipodi. Secondo me Giovanni Falcone era il siciliano spagnolo, freddo, distaccato, lucido, sapeva veramente essere spiacevole al primo contatto, era il classico hidalgo spagnolo, anche se poi, quando entrava in confidenza, era veramente un compagnone ed era molto piacevole, aveva anche sense of humor. Paolo Borsellino invece era il siciliano arabo, quindi tutto umanità. Borsellino non aveva remore, quello che doveva dire lo diceva, nel bene e nel male. Erano due caratteri completamente diversi che però stavano benissimo insieme. Si completavano, si integravano. Giovanni Falcone aveva una superiore concezione strategica nella lotta alla mafia. Paolo Borsellino era, se si può fare un esempio, un operativo da strada, mentre Falcone era uno stratega, questa era la differenza. Penso che Paolo Borsellino sia cominciato a morire quando è morto Falcone, perché era il suo riferimento, era la sua guida intellettuale, un padre.

Falcone era tutto questo, per alcuni, nella procura di Palermo. Per altri no, perché nella sua praticità di siciliano tipico, era modernissimo come magistrato e quindi non aveva tanti amici in procura. Il fatto che sia dovuto andare a Roma per lui è stata una grave sconfitta, ma lo fece scientemente perché lui voleva continuare a lavorare. Paolo Borsellino in quel periodo, mi ricordo, si seccò molto perché dopo la morte di Giovanni Falcone ci fu un ministro, mi sembra Vincenzo Scotti (allora ministro dell’Interno, ndr), che lo propose per la Procura Nazionale, e lui disse a quelli che conosceva: “Che ci vado a fare io a Roma? Non ci rimane più nessuno a Palermo a fare le indagini? Almeno, se sto qua, le faccio io”. Questa è un’immagine che dà l’idea della solitudine di queste persone. Falcone quindi era un’anomalia, ma era di una estrema correttezza formale, non seguiva la prima notizia che gli propinava il pentito di turno. Mi ricordo che una volta che assistetti ad un suo interrogatorio gli feci una battuta, lui poi si mise a ridere: “Hai fatto un bell’interrogatorio, però hai fatto uno sporco lavoro”. “In che senso?”, mi chiese lui.

Perché tu c’hai lo stesso sentire mafioso che ha il tuo avversario, cioè, c’avete la stessa origine, la cultura è identica, poi tu l’hai indirizzata al bene e quell’altro al male”. Se non si capisce la mentalità di questa gente è impossibile penetrare il loro mondo, fare le indagini.

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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