Yemen, la complicata alleanza tra Riad e Washington
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Yemen, la complicata alleanza tra Riad e Washington

Riprendono i bombardamenti contro gli Houthi. Incerti gli USA, che sorvegliano le navi iraniane senza mettere in discussione il patto nucleare

Per Lookout news

È del 21 aprile l’annuncio dato dalla tv saudita Al Arabiya della decisione del governo di Riad di porre fine all’operazione “Decisive Storm”, iniziata il 26 marzo per frenare l’avanzata dei ribelli sciiti Houthi nello Yemen. La coalizione messa su dai sauditi passerà ora all’operazione “Restoring Hope” finalizzata all’antiterrorismo e alla ricerca di una soluzione politica. Un bel passo indietro. Tenendo conto nell’evocazione (e abuso) di nomi altisonanti quali “Desert Storm”, la guerra contro l’Iraq del 1990 abortita in mezzo al deserto, e “Restauration of Hope”, la più che fallita operazione USA in Somalia di due anni dopo.

 I bombardamenti hanno causato la morte di almeno un migliaio di civili, ma non è certo stato questo a fermare i bombardieri. In parte erano terminati gli obiettivi facili da colpire come depositi di armi e carburante, caserme, etc. In parte, gli Houthi hanno sfruttato il terreno montagnoso yemenita che rende difficoltosi i bombardamenti e sono poi penetrati nelle città. In parte, per le implicazioni militari strategiche – come il dislocamento della portaerei USA Roosvelt davanti alle coste dello Yemen per impedire rifornimenti via mare agli Houti – hanno avuto la meglio le pressioni americane per la cessazione degli attacchi.

 

Sul terreno si continua a combattere: a est. Al Qaeda ha conquistato nuove posizioni

Perché i sauditi hanno interrotto i raid nello Yemen


È possibile che gli USA non vogliano mantenere una situazione di attrito con l’Iran, che appoggia gli Houthi, nel momento in cui si stanno incastrando i tasselli dell’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano. Il blocco dei bombardamenti lascia così l’esito dello scontro al campo di battaglia, dove le forze lealiste del presidente Mansour Hadi stanno contrastando nella città di Aden le milizie Houthi e i reparti dell’esercito fedeli all’ex presidente Saleh. Nel mentre, a est del Paese il gruppo di AQAP (Al Qaeda nella Penisola Arabica) ha conquistato notevoli posizioni, e importanti infrastrutture e attacca gli Houthi alle spalle.

 Nel caso in cui gli Houti e le milizie di Saleh abbiano la meglio, si potrebbe giungere a un futuro e precario stato unitario sciito-sunnita. Se invece le forze del Movimento del Sud riusciranno a ricacciarli da Aden, si arriverebbe probabilmente a una nuova divisione del Paese. E, quindi, alla permanenza della minaccia sciita sotto la pancia dell’Arabia Saudita, già minacciata a nord dall’avanzata contro l’ISIS delle truppe irachene comandate da generali iraniani. E ancor più minacciata da un Iran che, sbloccato dalle sanzioni e riammesso nel consesso internazionale, aumenterebbe notevolmente il proprio peso regionale. E la sua spinta sulle forti minoranze sciite in alcuni reami del Golfo.

 Una condizione questa che pone di fronte all’Arabia Saudita l’indispensabilità della protezione USA. Ponendosi sotto l’ala protettiva statunitense, Riad dovrà anche accettarne le condizioni. Gli USA potrebbero così ottenere che i sauditi cessino di praticare una politica estera per proprio conto e vantaggio, intralciando i piani strategici americani. Così come si è manifestata in modo accentuato per le pesanti interferenze saudite negli sconvolgimenti causati dalle primavere arabe.

 E potrebbero forse anche richiedere che i sauditi riportino la loro guerra sul prezzo del petrolio al punto in cui la quotazione è dannosa per la Russia e per l’Iran, e non anche – sotto i 60 dollari al barile – per il loro shale oil. Vale a dire che Washington vuole che i sauditi cessino di danneggiare la presidenza Obama, per favorire un ricambio interno agli Stati Uniti a tutto vantaggio del Partito Repubblicano, notoriamente legato alle major petrolifere mondiali, che operano anche in Medio Oriente.

 Il ricollocamento dell’Arabia Saudita sotto l’ala protettrice americana potrebbe spegnere le varie velleità, locali e globali, dei Paesi che vogliano produrre una propria – indipendente e anche contrastante – politica estera. Israele compresa. Il riallineamento dietro agli americani riporterebbe gli Stati Uniti al consueto ruolo di protettore globale. Consentendogli di giocare, con recuperato prestigio e sicuro retroterra, la sfida principale che è quella contro la Russia e la Cina.

 

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