"Volevo uccidere Trump". La campagna elettorale si fa sempre più aggressiva
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"Volevo uccidere Trump". La campagna elettorale si fa sempre più aggressiva

A Las Vegas un giovane tenta di sfilare la pistola a un poliziotto durante il comizio del tycoon. Lo specchio dell’aria che tira negli Stati Uniti

Per Lookout news

Un giovane cittadino britannico di soli vent’anni, Michael Steven Sandford, ha cercato di afferrare la pistola di un agente di polizia durante un comizio al Treasure Island Casino di Las Vegas, dove Donald Trump stava parlando. “Sembra il 1968” ha commentato qualcuno dopo che è uscita la notizia. Il riferimento è a Robert Kennedy, fratello del presidente John assassinato nel giugno di quell’anno dopo un comizio all’hotel Ambassador di Los Angeles, nel pieno di una campagna elettorale molto agitata, che provocò anche tumulti nel Paese. Proprio come sta accadendo nel 2016 quando si tratta di Trump.

 “Volevo ucciderlo” ha dichiarato agli inquirenti l’attentatore pasticcione, che ora si trova in custodia cautelare. Il suo piano era molto semplice: avvicinarsi al candidato repubblicano chiedendo un autografo e poi colpirlo a distanza ravvicinata. “So che avrei avuto la possibilità di sparare solo un colpo o due e che poi sarei stato quasi sicuramente ucciso” avrebbe confessato agli inquirenti. Ma questo per lui non rappresentava un problema. Anzi, se non ci fosse riuscito a Las Vegas avrebbe tentato nuovamente al prossimo comizio di Phoenix, in Arizona, per il quale aveva già prenotato i biglietti. Non si conoscono le vere motivazioni del gesto folle. Gli investigatori hanno riferito soltanto che Sandford era negli Stati Uniti da circa un anno e mezzo e che dal 17 giugno aveva iniziato a prendere lezioni di tiro, perché non aveva mai sparato prima.

I precedenti
Non è la prima volta che un fanatico tenta di avvicinare Donald Trump: lo scorso mese di marzo in Ohio alcuni agenti si sono gettati intorno al candidato repubblicano dopo che un uomo aveva tentato di salire sul palco dove Trump stava parlando. Altri eventi sono stati cancellati a causa di problemi di sicurezza e in molte delle città dove il magnate newyorchese ha tenuto comizi si sono scatenate proteste e, in alcuni casi, persino violenze e scontri con la polizia, come a San Diego.

Il cambio di strategia di Trump
Che Trump sia un uomo che divide, suscitando emozioni e istinti rabbiosi non è una novità. Al contrario, la prima parte della sua campagna elettorale è stata volutamente incendiaria e in ogni discorso il candidato ha puntato proprio ad eccitare gli animi, come del resto l’episodio di Las Vegas ben dimostra. Tutto questo fino a che non ha ottenuto i numeri per la nomination repubblicana, che il 5 luglio lo incoronerà ufficialmente come il candidato presidente del Grand Old Party. Adesso, però, con la nomination in tasca anche per lui è ora di farsi più moderato, per riuscire a convincere anche quella parte di elettori repubblicani scettici circa il suo eloquio, giudicato troppo aggressivo e poco presidenziale.

 


È per questo, ad esempio, che Trump ha appena licenziato Corey Lewandowski, imprenditore e lobbista che ha curato la sua campagna e gli ha costruito intorno l’immagine vincente di front-runner dei repubblicani nonostante le scarse chance iniziali, al grido di “Let Trump be Trump”. Ma, una volta fatto il miracolo e conquistata la nomination del GOP, adesso è tempo di farsi davvero più presidenziali per colmare il gap nei sondaggi da Hillary Clinton, che mantiene tra i 2 e i 6 punti di vantaggio. E così Lewandowski ha dovuto lasciare il posto a Paul Manafort, anche lui lobbista di grande esperienza politica e soprattutto già spin doctor di Gerald Ford, Ronald Reagan, i due Bush, fino a John McCain, che sinora aveva condiviso (malvolentieri) con Lewandowski la gestione della campagna elettorale repubblicana.

 A cinque mesi dall’election day, mentre lo staff di Donald Trump ragiona sul modo di presentare al meglio il loro uomo, i servizi segreti hanno un bel da fare con folli e fanatici che immancabilmente a ogni elezione compaiono, più spesso per smanie di visibilità, ma talvolta per attentare realmente alla vita dei politici che più hanno in odio. Tutto questo, al netto delle proteste di piazza, prefigura un difficile finale di campagna elettorale, che sinora si è contraddistinta come una delle più aggressive e facinorose di sempre, dove non mancheranno colpi bassi e spettacoli poco edificanti da parte di entrambi i candidati e dei loro supporter. Una campagna che si è già distinta dalle precedenti anche per un discorso politico che ha avuto poco se non niente d’intellettuale, e dove a regnare incontrastati sono stati (e saranno) il populismo e i bassi istinti. Vedremo chi e come ne raccoglierà i frutti.

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Luciano Tirinnanzi