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Venezuela, dove un milione di italiani vive in miseria

Sono al di sotto della soglia di povertà, senza lavoro e medicinali. Le voci della comunità italiana nel mezzo del caos tra Maduro e Guaidò

Il Venezuela ha accolto milioni di immigrati da Portogallo, Spagna e Italia. Molti se ne sono andati ma potranno rientrare presto, in un Venezuela che sia di tutti, prospero e in pace». Così ha parlato Juan Guaidó, nuovo presidente legittimo del Venezuela (riconosciuto come tale anche dal Parlamento europeo), secondo quanto prevede la Costituzione. L’appello fatto da questo 35enne sconosciuto ai più fino a pochi giorni fa (si veda il box nelle pagine successive), riguarda almeno 100 mila nostri connazionali che, da quando nel 2013 Nicolás Maduro salì al potere, hanno già lasciato il Paese. Il 10 per cento del milione di persone che conta la comunità italiana; e un altro 20 per cento sta valutando di farlo se le cose non cambieranno presto.

Rovistano nell’immondizia in cerca di cibo, si barricano in casa per evitare che i loro appartamenti siano occupati, soffrono per la mancanza di cure mediche. Sono loro gli italiani del Venezuela che resistono, un esercito di lavoratori instancabili, emigrati dal nostro Paese quasi tutti dopo la Seconda guerra mondiale. Per decenni hanno contribuito alla ricchezza di una nazione che, anche grazie al loro lavoro, è arrivata ad essere chiamata «La Venezuela Saudita». Merito del petrolio, certo: nel sottosuolo sono racchiuse le maggiori riserve certificate di greggio al mondo, si parla di 300 miliardi di barili. Ma quella prosperità è anche merito delle fatiche dei nostri emigranti che dal nulla hanno aperto industrie, negozi, locali pubblici e hanno costruito grattacieli, strade, ponti, dighe. Oggi di quel Venezuela resta ben poco: Hugo Chavéz prima e Maduro poi, con le loro politiche economiche scellerate e un’ingordigia tipica dei dittatori che si proclamano corifei del socialismo, in questo caso bolivariano, hanno in pochi anni mandato in rovina il Paese. Mentre andiamo in stampa, e a differenza di Stati Uniti, Israele, Canada, Australia e gran parte dei paesi latinoamericani, l’Italia non ha ancora riconosciuto Guaidó. Perché? Pesa l’appoggio dato in passato a Maduro dai 5 Stelle.

Chi dei nostri connazionali ha potuto, nel frattempo è fuggito; ma l’iperinflazione che ha raggiunto i due milioni per cento l’anno ha impedito a moltissimi di andarsene. Con pensioni e stipendi dal valore reale di 5 euro al mese, il più basso al mondo, come permettersi un viaggio in Italia e, tantomeno, un soggiorno? «Siamo disperati» sintetizza a Panorama Gianni (il nome è di fantasia per tutelare la sua sicurezza, come succede per altri testimoni di questo articolo), una vita trascorsa a Caracas, che fino all’ultimo ha lottato per restare ma ora si è arreso per le sue condizioni di salute. Spiega: «Infatti ho preso di nuovo la residenza in Lazio. Soffro di una cisti all’avambraccio che rischia di degenerare in una forma maligna. L’operazione qui costa 7 mila dollari. Per me è una cifra inarrivabile: mi aiuterà mio figlio, che era ritornato a Roma dieci anni fa e lavora in un museo».

Gianni potrà dunque usufruire del nostro sistema sanitario; ma, a differenza di lui, tanti italiani che non hanno i soldi per rimpatriare sono condannati a un futuro senza speranza. «Ho un diabete di tipo 1» racconta Gaetano, originario di Napoli, lavoro e famiglia in Venezuela. «So che per questo morirò presto. Avere l’insulina qui è impossibile, finora ci riuscivo con la solidarietà di amici che avevano figli a Miami e che da lì me la spedivano. Ora, però, stanno andando via anche loro».

Mentre in tanti sperano nel cambiamento incarnato da Guaidó, a oggi, sono circa cinque milioni i venezuelani in fuga - otto milioni secondo l’Onu, entro la fine del 2019 - via da quest’inferno dove manca tutto. I più poveri scappano addirittura a piedi in Colombia, Brasile e, perfino, in Ecuador e Perù. Il milione di italiani residenti in Venezuela vivono nella sensazione di essere stati trascurati dai vari governi che ultimamente si sono avvicendati a Roma. Hanno soprattutto in mente la visita della delegazione 5 Stelle guidata dell’onorevole Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, arrivata a Caracas nel 2017 per dare il proprio sostegno al regime di Maduro. Fu conclusa da un surreale pellegrinaggio alla tomba di Chávez.

«No, nessuno fa niente per noi: siamo un esercito invisibile di disperati» lamenta Roberto, proprietario di un ristorante nel centro della capitale che, per rendere l’idea della realtà concreta, è rimasto sfornito di carne da almeno 15 giorni. Non so come riusciremo ad andare avanti, però rimaniamo solidali con chi non ha nulla, come succedeva in Italia in tempo di guerra».

Così Roberto, sull’esempio della napoletanissima tradizione del «caffè sospeso», quando ha visto le persone rovistare nei rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare, si è inventato «la pasta pendiente». Ovvero, chi può lascia pagato nel suo ristorante mezzo piatto di pasta. L’altra metà la offre lui stesso agli affamati che, al di là della vetrine, sopravvivono in strada, un numero crescente dei quali sono italiani se non di prima, di seconda generazione.

Per le via di Caracas la vita quotidiana è talmente difficile che le convulsioni della politica appaiono comunque remote. Vitangelo sa solo che, nella sua azienda tessile, è stato costretto a ridurre la produzione del 90 per cento. «Se quest’anno non c’è una svolta sarò costretto a chiudere».

Paolo, invece, non ce l’ha fatta e ormai ha chiuso i battenti di una piccola impresa edile. Non ha più clienti: nella sua sede restano lui e alcuni macchinari. L’iperinflazione si è mangiata non soltanto il bolivar, la moneta locale, ma anche il dollaro americano che fino a qualche tempo fa garantiva un accettabile potere d’acquisto. Così, per non stare con le mani in mano («Noi italiani proprio non ci riusciamo, almeno quelli della mia generazione che hanno costruito il Venezuela», s’inorgoglisce Paolo), aiuta il suo amico Vittorio Marcucci, grande chef pluripremiato, nella gestione del ristorante del Club italo-venezuelano. Un tempo era un «gioiello» invidiatoci in tutto il mondo: con queste caratteristiche, infatti, era il locale italiano più grande del pianeta. Oggi, però, quello sfarzo è un ricordo. Il club si è tuttavia trasformato in un punto di incontro e un «hub» di solidarietà. Chi può dà una mano a chi fa più fatica ad andare avanti.

Vittorio Fioravanti resiste ancora insieme a sua moglie. Ottantadue anni, una figlia a Miami, l’altra in procinto di trasferirsi a Berlino, va avanti con i sei scatoloni pieni di cibo che la figlia ogni tanto gli spedisce dagli Stati Uniti. «Ce li dividiamo con alcuni parenti di mia moglie, un paio di vicini e persino la portinaia colombiana» dice amaro. «Non ce ne siamo ancora andati ma continuiamo a cantare quell’arietta d’opera che recita “Partiam partiamo!”. Dalla terrazza del mio appartamento di Caracas il Venezuela appare per ciò che è: poche auto, quasi nessun camion di alimenti, molti mezzi militari. L'inflazione è ormai a livelli assurdi, rischia di arrivare a un tasso di 10 milioni per cento entro l’anno, sostiene la Banca Mondiale. Quindi un dollaro vale oggi 3.500 «bolivar sovrani» (la nuova moneta introdotta di recente da Maduro, ndr). Un chilo di carne in macelleria costa 6 mila bolivar sovrani ma uno stipendio medio è di 4.500! (quando questo articolo verrà letto, i prezzi saranno probabilmente triplicati per l’iperinflazione, ndr). Come si può vivere? Noi ancora ci salviamo, perché negli anni abbiamo messo da parte i nostri risparmi in euro e dollari. Ma adesso, nonostante la valuta straniera, il costo della vita è quadruplicato rispetto a un anno fa».

Il desiderio dell’84 per cento della popolazione (sondaggio Metanálisis del 27 gennaio scorso) è che Maduro e il suo governo se ne vadano immediatamente, senza fare ulteriori disastri. Vedremo.Nelson Bocaranda è uno dei giornalisti investigativi più famosi del Venezuela. Da mesi la dittatura gli ha sequestrato il passaporto. «Non gliel’hanno più restituito, nonostante le nostre innumerevoli richieste» dice a Panorama il figlio Nelson Eduardo, anch’egli giornalista. Bocaranda padre ha anche un nostro passaporto perché parte della sua famiglia era emigrata dall’Italia, «Il problema è che, se si è nati qui, non viene autorizzata l’uscita dal Paese se non si possiede un passaporto venezuelano. Mio papà aveva un fitto programma di viaggi di lavoro, che così non può più rispettare».

Impasse drammatico anche se Nelson e la sua famiglia hanno preso la decisione di restare in Venezuela, nonostante tutto. «È qui che il nostro lavoro ha senso: per denunciare quanto sta accadendo. Chiediamo però l’aiuto di altri Paesi, come l’Italia, perché condannino in modo fermo all’Unione europea la situazione del Venezuela. E, soprattutto, chiediamo aiuto per gli anziani di origine italiana. Il loro futuro è un dovere per tutti noi».

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