Reportage dalla Turchia: la paura che porta unità
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Reportage dalla Turchia: la paura che porta unità

Repressione, stampa imbavagliata, riforma dell'esercito e caccia ai traditori, ma anche una ritrovata unità di popolo

Istanbul - La metropolitana è affollatissima, così come le strade, i coffe shop, i negozi.
Sugli schermi sopra le porte scorrono le immagini della notte del 15 luglio, una notte che ha cambiato per sempre il destino della Turchia e del suo popolo.

Vengono mostrati anche i nomi e i volti dei sehit, i martiri caduti per fermare il golpe. Sono poliziotti, studenti universitari, lavoratori.

C’è la giovanissima soldatessa Demet Sezen, uccisa ad Ankara da una bomba. Nella foto tiene in braccio il figlio di pochi mesi. C’è il diciassettenne Uhud Isuk, liceale ferito mortalmente da alcuni colpi di proiettile. Ci sono due poliziotti gemelli di venticinque anni, Ahmet e Mehmet Oruc, caduti entrambi ad Ankara.

La gente che sale, alza gli occhi e legge; qualcuno recita una fatiha, preghiera, sottovoce.

Ovunque sono stati affissi cartelli rossi su cui è scritto “Hakimiyet Milletindir”, la sovranità appartiene al popolo e ovunque sventola la bandiera turca, quasi a celebrare un ritrovato nazionalismo.

I ritratti di Erdogan e quelli di Ataturk
Da quella famigerata notte, tutte le sere le diverse piazze delle città principali si animano di manifestanti che inneggiano all’unità del popolo. Alcuni portano con sé il ritratto di Erdogan, altri quello di Ataturk; spesso le due immagini, così antitetiche, vengono messe vicine.

Forse, per la prima volta, il popolo turco ha messo in secondo piano ciò che lo divide, per unirsi di fronte a quella che tutti considerano una minaccia.

Intervisto gente di ogni età, donne e uomini, sostenitori della maggioranza e delle opposizioni, le minoranze curda e siriana e pur avendo idee diverse, concordano tutti sul fatto che nessuno vuole di nuovo i militari al potere. Le opposizioni, però, ammoniscono: "Se dalla repressione dei golpisti, si passerà alla censura delle voci dissidenti, saremo pronti a dare battaglia”.

I fori dei proiettili
Dalle strade di Istanbul è stata rimossa ogni traccia di sangue, ma in alcuni punti si vedono i segni dei crateri lasciati dagli ordigni e i fori dei proiettili.

Davanti alle caserme, ai tribunali, ai commissariati di polizia e alle università si vede un imponente spiegamento di forze dell’ordine; alcune strade sono state sbarrate.

Da fuori non si coglie nulla di quello che sta accadendo, mentre all’interno ci sono perquisizioni, arresti, interrogatori di tutti i sospettati di aver in qualche modo preso parte al golpe o di avere legami con la corrente di Fethullah Gülen, il leader politico in esilio negli Stati Uniti, accusato dal governo di Ankara di aver organizzato il coup.

Arresti indiscriminati
Molti giornalisti vengono arrestati e molte testate vengono chiuse; lo stesso destino è riservato ad atenei universitari ed enti privati. Anche nel mondo accademico gli arresti e gli interrogatori sono serrati. Il 26 luglio alcune Ong, tra cui Human Rights Watch, denunciano abusi nell’ondata repressiva e violazioni dei diritti umani.

Per i golpisti rimasti uccisi negli scontri non si celebra nessun funerale; i loro corpi vengono seppelliti in un cimitero creato ad hoc, chiamato il cimitero dei traditori. Vengono ridefinite le gerarchie militari; maggioranza e opposizione firmano per dichiarare fuorilegge la corrente gulenista.

La gente che incontro ha voglia di raccontarsi, di parlare. La "soddisfazione per la vittoria delle istituzioni espressa dalle cancellerie internazionali – racconta un imprenditore - sa di salita sul carro dei vincitori. Ankara ha trovato poca solidarietà sul piano diplomatico. All’estero ci si sta concentrando solo sulla severa risposta del governo, e poco sui pericoli che oggi una presa del potere da parte dei militari avrebbe comportato per un Paese tanto strategico, quanto complesso come la Turchia.

"Gli occidentali credono che noi non siamo capaci di vivere in pieno una democrazia. Pensano che gli altri popoli possano essere governati solo con il pugno di ferro, ma non è così – racconta un giovane manifestante in piazza Taksim -. Noi non siamo l’Egitto, siamo pronti a difendere con la vita la nostra democrazia, che è giovane e per questo imperfetta, ma è l’espressione della volontà del popolo. Io sono un oppositore del governo, ma ora è il momento dell’unità”. Il giovane tiene in mano un cartello: “Fazizme karsi omuz omuza”, solidarietà contro il fascismo.

"Non ci piace avere sempre un freno alla nostra libertà di espressione, e speriamo che, finite le indagini, non ci saranno più censure – mi racconta uno studente sulla metro –. Adesso è necessario farla pagare a tutti quelli che hanno attentato alla sicurezza del nostro Paese".

"Vogliamo pace e stabilità – afferma una donna sulla quarantina -. Essere governati da un regime militare o vedere scoppiare una guerra civile sono incubi che noi turchi vogliamo scongiurare. Il nostro passato e l’esempio di ciò che sta accadendo in Siria ci hanno insegnato molto".

Osservando il colpo d’occhio delle bandiere che sventolano un uomo si ferma a scattare fotografie: "È la rinascita della Turchia – afferma -. Abbiamo scongiurato un pericolo terribile. Questo significa che ora staremo ancora più attenti, sia alle minacce esterne, di chi vuole destabilizzare il nostro Paese per i suoi interessi, sia a quelle interne. Stiamo lottando contro un male, ma se questa lotta si trasformerà in una catena contro la nostra libertà, saremo pronti a spezzarla".

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Asmae Dachan
Una manifestazione contro il colpo di stato in Turchia, luglio 2016

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Asmae Dachan