Scudo dell'Eufrate guerra Siria Turchia
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Tregua in Siria: la Turchia dice no alla proposta americana

Si fa sempre più complesso il piano dei curdi di formare un proprio stato nei territori conquistati nel nord della Siria

Per Lookout news

In Siria tiene banco la questione della possibilità di un cessate il fuoco tra le forze armate turche e le milizie curde dell’SDF (Forze Democratiche Siriane) e dell’YPG (Unità di Protezione Popolare). L’ipotesi dell’accordo, annunciata il 30 agosto dagli Stati Uniti, è stata respinta dal governo turco che continuerà le proprie offensive militari fino a quando i curdi rimarranno posizionati a ovest del fiume Eufrate, vale a dire la linea rossa che Ankara ha sempre posto.

 La situazione del nord della Siria dunque si complica ulteriormente. Tutti gli attori coinvolti in questo quadrante del conflitto speravano nella tregua. Gli USA per togliersi il peso di dover appoggiare contro l’ISIS una coalizione a guida curda che contemporaneamente era una minaccia per l’alleato turco. La Russia per cavarsi dall’impaccio di dover derubricare la causa indipendentista curda al fine di mantenere con la Turchia una condizione che le garantisca l’accesso ai Dardanelli. L’Iran per continuare a sostenere il fronte anti-jihadista (proseguendo dunque le offensive contro Al Qaeda, Arar Al Sham e ISIS) senza il timore di favorire il malvisto indipendentismo curdo. La Siria per allontanare lo spettro di una sua frantumazione. Un guadagno condiviso con la Russia, l’Iran, e anche la Cina, i cui interessi in Medio Oriente necessitano di una Siria unita per impedire una endemica “libicizzazione” dell’area.

 Approfondimento: fin dove può spingersi la Turchia

L’operazione “Euphrates Shield” (“Scudo sull’Eufrate”), dunque, prosegue. I turchi l’hanno avviata la settimana scorsa inventandosi che la missione sarebbe stata condotta contro l’ISIS, anche se lo Stato Islamico occupa da anni quell’area al confine con la Turchia senza che questa vi abbia mai visto una minaccia.

 

Il doppio gioco degli Stati Uniti
L’inviato presidenziale del dipartimento della Difesa americano per la lotta contro l’ISIS, Brett McGurk, nelle ultime settimane ha giocato il ruolo pro-curdo scrivendo sul suo profilo Twitter che gli USA “consideravano inaccettabili e fonte di profonda preoccupazione […] questi scontri in aree dove non vi era presenza dell’ISIS” e ribadendo a più riprese l’estraneità degli Stati Uniti dall’attacco turco e l’impegno di Washington per far cessare al più presto le ostilità. Al contempo il vice presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in una visita lampo ad Ankara lo scorso 24 agosto, andava invece al vero nocciolo della questione, dichiarando che il superamento dell’Eufrate da parte dei curdi era una minaccia per la Turchia. La doppia faccia ha così permesso agli USA di assumere il ruolo di pacieri nel tentativo di portare le parti a concordare un cessate il fuoco e, al contempo, gli ha consentito di guadagnare una funzione mediatoria di primo piano nel conflitto siriano. Funzione che finora era stata appannaggio della Russia che, specificamente sui curdi, l’aveva svolta quando questi erano entrati in conflitto con le truppe governative siriane.

 

Gli errori commessi dai curdi
In questo scenario militare e diplomatico in continua evoluzione, l’attacco curdo all’esercito siriano ad Hasakah a metà agosto è stato l’errore che ha provocato, e consentito, l’intervento turco a Jarabulus. Con il proprio indipendentismo passato dal secolare silenzio al fervore delle vittorie militari contro l’ISIS, i capi del PYD (Partito dell’Unione Democratica, a cui rispondono le milizie dell’YPG, Unità di Protezione Popolare) hanno mal calcolato fin dove potevano spingersi, senza tenere conto di tutti gli interessi in gioco e degli attori in campo.

 

Con l’attacco alle truppe governative i curdi hanno confermato i timori della Turchia sulla loro intenzione di creare una nazione autonoma al suo confine e, delegittimando con l’attacco il governo legale siriano, hanno al contempo facilitato Ankara nella violazione della sovranità della Siria. Era evidente che non erano ancora maturate le condizioni per una totale indipendenza curda in Siria, non tanto per l’ovvia opposizione turca, ma per i troppi timori geopolitici che questa creava nei maggiori attori dell’assetto mediorientale, soprattutto dei possibili alleati di Russia, Iran, Cina. Per non dire degli USA, loro supporter contingenti contro l’ISIS, ma certamente più bisognosi dell’alleanza con la Turchia. Senza tenere conto, poi, della troppo consistente presenza di popolazione araba nella Siria del nord.

 

Era evidente che quello che i curdi dovevano fare era consolidare le proprie posizioni e andare poi alla futura trattativa per la propria autonomia in una condizione di forza. Dopo aver conquistato Manbij, i curdi erano nella posizione di sferrare all’ISIS un colpo definitivo. Raggiungendo Al-Bab, loro dichiarato successivo obiettivo, sarebbero stati abbastanza vicini alla base di Kuweires – in mano ai governativi – da poter arrivare a dividere in due il territorio dell’ISIS, tagliando contemporaneamente le linee di rifornimento dalla Turchia. Tutto questo era evidente, e non si sa quindi perché i curdi sia siano risoluti, o siano stati indotti, ad attaccare le truppe governative siriane.

Fatto è che gli USA, anche sbandierando di facciata il loro impegno contro l’ISIS, non hanno minimamente rinunciato a sfruttare e creare ogni occasione per attaccare le truppe governative siriana e arrivare alla caduta di Assad.


Per i curdi c'è un rilevante passo indietro nell’ottica della costituzione della Rojava (lo stato autonomo del Kurdistan) e la conseguente legittimazione dell’invasione turca della Siria

Washington, tramite gli alleati locali sauditi, qatarioti e turchi, sta continuando ad armare e addestrare i miliziani jihadisti, supportandoli anche direttamente con le sue forze speciali. Ci si può quindi domandare se gli USA abbiano avuto un ruolo nello sfruttare la leva indipendentista e lo slancio vittorioso dei curdi affinché giungessero alla sconsiderata scelta di attaccare le truppe governative. D’altronde, da questo slancio in avanti dei curdi gli USA avevano tutto da guadagnare: attacco alle truppe governative siriane e delegittimazione del governo di Bashar Assad anche da parte di una forza considerabile alleata; provocazione della causa di un intervento turco in Siria; contemporanea infiltrazione nell’area di qualche migliaio di miliziani, se non anche di soldati turchi travestiti, per combattere Assad; eliminazione della contraddizione tra il loro supporto ai curdi e l’aspirazione indipendentista di questi minacciosa per la Turchia.

 Fatto è che con o senza l’accordo di cessate il fuoco con la Turchia, i curdi sono obbligati a riattraversare l’Eufrate se vorranno evitare nuovi scontri con l’esercito turco. Mentre le forze armate turche potranno scendere di altri 15 chilometri verso Azaz. Tradotto, per i curdi ciò significherà un rilevante passo indietro nell’ottica della costituzione della Rojava (lo stato autonomo del Kurdistan) e la legittimazione dell’invasione turca della Siria.

 Senza dimenticare i miliziani supportati dalla Turchia – ma anche da Arabia, Qatar, USA – i quali presto potrebbero essere messi nelle condizioni di oltrepassare il fiume Sajur e avanzare verso Manbij, riducendo ancora di più il territorio conquistato dai curdi e impedendo il taglio in due di quello dell’ISIS. Una forza, lo Stato Islamico, che troppi ufficialmente combattono sperando però che rimanga abbastanza in vita da consentirgli di raggiungere i propri obiettivi.

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