Cosa succede se l’Italia interviene in Libia
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Cosa succede se l’Italia interviene in Libia

La mappa di chi comanda nel paese, le tappe e la possibile strategia per un intervento militare

Che cosa sta succedendo in Libia è inutile ripeterlo. Dalla caduta del colonnello Gheddafi in poi, catturato e ucciso a Sirte nell’ottobre 2011 durante la rivoluzione per abbattere il suo regime, il Paese non è più uscito dalla guerra civile e ha perso progressivamente la propria unità nazionale. Il potere è andato polverizzandosi, fino all’attuale situazione in cui vi sono almeno quattro centri di potere e altrettante città-Stato.


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Chi comanda in Libia. La mappa della situazione odierna
Dopo le elezioni del giugno 2014, molte fazioni in lotta non hanno riconosciuto il nuovo parlamento. Una parte del Paese è rimasta fedele al vecchio parlamento di Tripoli, che continua a governare la capitale e la città di Misurata grazie a milizie riferibili ad Alba libica, una coalizione-ombrello che comprende la minoranza berbera, gruppi legati alla Fratellanza Islamica, ma anche fazioni islamiste radicali.

 Il nuovo parlamento, che ha ottenuto il riconoscimento internazionale e che riunisce le forze laiche moderate del Paese, è stato invece costretto dai tumulti scoppiati nella capitale a fuggire a Tobruk, vicino al confine egiziano, da dove non riesce però a governare che una piccola porzione del Paese. Al governo di Tobruk risponde l’esercito regolare, che gli è rimasto fedele e ha nominato a capo delle forze armate il generale Khalifa Haftar, uomo vicino agli Stati Uniti e all’Egitto dei militari.

 A Bengasi, invece, città protagonista della resistenza a Gheddafi, hanno preso il potere gruppi jihadisti salafiti che si rifanno alla Rivoluzione del 2011 e che si riconoscono in Ansar Al Sharia, una milizia islamica che si è formata durante la guerra civile libica e che punta all’imposizione della Sharia nel Paese.

 A Derna, che si trova a metà strada tra Bengasi e Tobruk, uomini armati hanno defezionato da una corrente islamista che si era imposta in città a ottobre 2014 e hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico. Dopo aver istituito un avamposto del Califfato stanno ora espandendosi fino a Sirte, non lontano da Misurata e Tripoli, verso le quali starebbero puntando. Questa la situazione ad oggi.

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L’azione militare a guida delle Nazioni Unite
Dopo che nel fine settimana il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, seguito dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, aveva annunciato che “l’Italia è pronta a combattere in un quadro di legalità internazionale”, il presidente francese François Hollande, attraverso una nota dell'Eliseo, si è detto d’accordo sul fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite debba riunirsi con urgenza per adottare nuove misure in merito alla crisi libica. Tutto ciò, mentre l’Egitto dei militari, nella notte tra domenica e lunedì ha bombardato alcune postazioni a Derna, in coordinamento con l’esercito libico del generale Haftar.

 Sembra che la posizione del governo italiano, sulla quale il ministro Gentiloni riferirà giovedì in parlamento, sia quello di formare una coalizione internazionale a guida italiana, per muovere guerra a quella parte di Libia sfuggita al controllo del governo ufficiale.

 Pensare a un intervento unilaterale del nostro Paese oggi è del tutto irrealistico, ovviamente. L’unica strada logica e percorribile è proprio quella di una convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza ONU, l’unico organo internazionale che, in forza dell’articolo 7 della Carta ONU, è autorizzato alla creazione di una forza internazionale incaricata di riportare con le armi la pace in un Paese come la Libia, che tuttavia è stato disgraziatamente destabilizzato proprio con il concorso attivo dell’Occidente.

 Già nel marzo 2011, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite votò la risoluzione 1973 che imponeva una no fly zone sui cieli libici, ma l’iniziativa di Francia e Regno Unito, con la copertura della marina americana, accelerò la guerra contro il colonnello Gheddafi, poi coperta dalla NATO sotto il nome di “Operazione Unified Protector”.

 Il Consiglio di Sicurezza ONU è un organo composto da 15 Paesi membri, di cui 5 permanenti: Stati Uniti, Federazione Russa, Cina, Francia e Regno Unito. Anche se il suo potere è molto grande, il veto di uno solo dei membri permanenti può inficiare molte delle sue decisioni. Tuttavia, il vero problema è che l’organismo, che ha sede nel Palazzo di Vetro di New York, negli ultimi anni è sembrato totalmente afono e impotente per gestire le numerose crisi internazionali che, dall’Ucraina alla Siria, dallo Yemen alla Libia, stanno sconvolgendo il mondo civilizzato.

 

La strategia militare del possibile intervento
Anche se le Nazioni Unite dovessero votare una risoluzione che autorizza l’intervento militare, e anche se l’Italia potrebbe in effetti guidare questa coalizione, va detto chiaramente che finché non si vedrà la Sesta flotta della U.S. Navy nelle acque del golfo della Sirte, ogni proposito interventista è del tutto avventato.

 Solo gli Stati Uniti dispongono, infatti, della potenza di fuoco necessaria ad assicurare un effetto rilevante e utile, prima dello sbarco di truppe di terra. Il 19 marzo del 2011, quando scattò l’Operazione Odissey Dawn, dalle navi da guerra e dai sottomarini americani partirono ben 112 missili da crociera Tomahawk che, in poco tempo distrussero quasi del tutto le difese aeree libiche, permettendo poi ai caccia della coalizione di fare il resto e, in seguito, anche alle truppe di terra.

 La strategia del 2015, oltre alla copertura americana via mare, dovrebbe prevedere anche il coinvolgimento diretto dell’Egitto e il sostegno interno dell’esercito del generale libico Haftar, che ha le fonti necessarie e la reale conoscenza dei numeri e della posizione delle forze nemiche schierate sul campo. E, possibilmente, implicare anche l’aiuto delle tribù locali del sud libico, che mal digeriscono la presenza jihadista nell’area. L’intervento di terra che seguirebbe i bombardamenti aerei, potrebbe partire proprio dalla frontiera egiziana, contemporaneamente al blocco navale delle coste libiche.

 Ciò detto, per non commettere gli errori catastrofici già compiuti in passato (vedi l’Iraq), prima di qualsiasi attacco militare, bisognerebbe però avere chiare le idee sul dopoguerra. Chi governerà la Libia domani? Quale governo potrà mediare una pace che coinvolga tutte le anime del Paese? A chi affidare il mantenimento della sicurezza e dove stabilire nuovamente la capitale? A queste e ad altre domande si deve già oggi una rispota precisa e circonstanziata. Altrimenti, sarà tutto, ancora una volta, inutile.

 Non ci dimentichiamo che quando la seconda guerra mondiale ancora non era finita, i “grandi” si riunirono a Yalta, in Crimea, proprio per decidere gli assetti del dopoguerra. Se l’intervento ONU sponsorizzato dall’Italia deve avere un senso, prima di partire dovremmo avere le idee molto chiare su quali dovranno essere le condizioni della Libia dopo la fine delle ostilità.

 E, in proposito, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, ha già offerto un suggerimento, un’idea che potrebbe non piacere al premier Matteo Renzi e neanche al resto d’Occidente, ma che tutti farebbero meglio ad accettare. In Libia in questo momento non serve la democrazia, servono i militari.


La grande fuga degli italiani dalla Libia

La nave con a bordo gli italiani residenti in Libia che hanno deciso di lasciare il Paese, arrivata nel porto di Augusta, 16 febbraio 2015. ANSA/ORIETTA SCARDINO

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Luciano Tirinnanzi