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Siria: il gioco pericoloso di sauditi e turchi

Ankara bombarda i curdi a nord, mentre a Incirlik arrivano i caccia di Riad. Obiettivo: accerchiare la coalizione filosciita di Teheran e Mosca

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Sono bastate poche ore per sgretolare l’accordo per una tregua in Siria raggiunto lo scorso 12 febbraio a Monaco di Baviera dalla comunità internazionale. Rispettare la scadenza fissata il 19 febbraio per l’avvio del cessate il fuoco appare a dir poco complicato, soprattutto alla luce della recente escalation di scontri e bombardamenti registrata al confine con la Turchia.

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La riunione del Gruppo Internazionale di Supporto sulla Siria, anziché rafforzare il fronte anti-ISIS ha innescato una serie di reazioni a catena a cui difficilmente basterà per porre un argine la telefonata distensiva avvenuta ieri, domenica 13 febbraio, tra Barack Obama e Vladimir Putin.

La strategia (rischiosa) anticurdi della Turchia
La Turchia, più di tutti, è al centro di una complessa partita in cui gradualmente la strategia militare sta prendendo il sopravvento sugli equilibrismi della diplomazia. Tra il 13 e il 14 febbraio l’aviazione di Ankara ha intensificato i bombardamenti a nord di Aleppo contro le postazioni dei curdi siriani dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo), gruppo di milizie espressione del partito PYD (Partito dell’Unione Democratica), e dell’SDF (Forze Democratiche Siriane). Quest’ultime, stando agli ultimi aggiornamenti, sono sempre più vicine a Tal Rifaat, roccaforte dei ribelli siriani situata a soli 20 chilometri dal confine turco. Missili sono stati sganciati dai turchi contro la base aerea di Menagh (30 chilometri a nord di Aleppo) e nell’area di Deir Jamal, mentre l’artiglieria di terra ha colpito la città siriana di Azaz.

La mossa di Ankara contrasta con gli obiettivi di Washington, che nel nord della Siria punta a contrastare l’avanzata di ISIS, Jabhat Al Nusra e degli altri gruppi jihadisti operativi in quest’area del Paese sostenendo le offensive di quelle stesse forze curde siriane che la Turchia considera invece organizzazioni terroristiche al pari del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Su questo punto i rapporti tra Stati Uniti e Turchia sono pertanto destinati a deteriorarsi considerato che gli USA contano di appoggiare le forze curde anche per guadagnare terreno in direzione di Raqqa, capitale di ISIS in Siria, dove negli ultimi giorni l’esercito di Assad – sfruttando la copertura aerea russa – è riuscito a spingersi fino a circa 30 chilometri dall’aeroporto di Tabqa.

 

Oltre che dalle critiche di Washington, Ankara deve difendersi anche dalle accuse di sconfinamento in territorio siriano lanciate dal governo di Bashar Assad. Damasco si è rivolta direttamente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiedendo un suo intervento a seguito del presunto ingresso in Siria di 12 pick-up armati e di circa 100 militari – tra cui anche mercenari – attraverso il valico di frontiera di Bab al-Salameh, vicino ad Azaz nella provincia di Aleppo. La versione siriana è stata smentita oggi, lunedì 15 febbraio, dal ministro della Difesa turco Ismet Yilmaz, ma è evidente che al confine con la Siria, con decine di migliaia di siriani in fuga da Aleppo e con i bombardamenti aerei di Russia da una parte e Turchia dall’altra, la situazione è destinata a degenerare ulteriormente.

 

L’ingorgo a Incirlik e la posizione saudita
Emblema della confusione totale che ha ormai preso il sopravvento all’interno della stessa coalizione anti-ISIS è l’ingorgo di jet e militari nella base turca di Incirlik, dove ai caccia di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti si sono andati a unire adesso anche cacciabombardieri F-15 dell’Arabia Saudita. La notizia è stata confermata direttamente dal generale saudita Ahmed al-Assiri, il quale ha specificato che l’invio dei jet a Incirlik è stato effettuato con il consenso della coalizione.

Saranno gli eventi a dire se e quando al posizionamento degli aerei sauditi nella base turca seguiranno operazioni di terra da parte dell’Arabia Saudita e della stessa Turchia. Per il momento Riad si è limitata ad annunciare l’inizio di imponenti manovre militari a cui presto (la data precisa non è ancora stata comunicata) parteciperanno 20 Paesi suoi alleati contro il terrorismo: Emirati Arabi Uniti, Giordania, Bahrain, Senegal, Sudan, Kuwait, Maldive, Marocco, Pakistan, Ciad, Tunisia, Isolo Comoros, Gibuti, Oman, Qatar, Malesia, Egitto, Mauritania e Mauritius. All’operazione, denominata “Thunder of the North”, prenderanno parte truppe di terra e mezzi aerei e navali anche se, come nel caso di una nuova coalizione araba annunciata da Riad a fine dicembre, è possibile che arrivino a stretto giro smentite o prese di distanza sulla partecipazione all’iniziativa.

 Di fatto si tratta di una prova muscolare, l’ennesima, sfoggiata da Riad e dai Paesi sunniti per rispondere alla coalizione filo-sciita guidata dalla Russia e dall’Iran, che attraverso il suo generale di brigata Masoud Jazayeri, vice del capo di Stato Maggiore delle forze armate iraniane, alla notizia del possibile intervento di truppe saudite in Siria aveva replicato affermando che Teheran è pronta “a prendere le misure necessarie”.

 Se questi sono i presupposti, pensare alla possibilità di concordare un cessate il fuoco nella Siria devastata dai combattimenti appare quantomeno improbabile. E dovrebbe esserlo anche per gli irriducibili ottimisti del Gruppo Internazionale di Supporto sulla Siria.

 

 

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Rocco Bellantone