GAZA ISRAELE
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Gaza, chi sostiene Israele (e chi no)

Dietro alcune sorprendenti reazioni allo spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme e soprattutto alle violenze a Gaza si intravvede la ricomposizione delle alleanze in Medio Oriente

Non bastava la tensione nell'area, dovuta alla guerra in Siriae all'accordo sul nucleare iraniano: l'inaugurazione dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme est ha gettato nuova benzina sul fuoco in Medio Oriente, causando proteste e scontri violenti tra palestinesi e israeliani, che hanno spaccato in due il mondo arabo e non solo. Da una parte le denunce contro il durissimo intervento dell'esercito di Tel Aviv contro i manifestanti a Gaza, dall'altro i sostenitori dei diritti di Israele a difendere i propri confini, in particolare nell'anno del 70esimo anniversario di fondazione dello Stato israeliano.

Resta aperto il nodo della creazione di due Stati per due popoli in Palestina, con gli Stati Uniti che ribadiscono di lavorare a un piano di pace, ma sono ormai ritenuti interlocutori inaffidabili dall'Autorità Nazionale Palestinese. Hamas catalizza la rabbia dei palestinesi e Tel Aviv non esista a ricorrere a raid contro le postazioni militari dell'organizzazione, come accaduto nelle ultime ore.

Intanto la comunità internazionale e quella araba moltiplicano le condanne, anche se non mancano sostenitori di Israele, a partire dall'Arabia Saudita, senza dimenticare gli Emirati Arabi Uniti e la posizione ambigua dell'Egitto. Ecco quali sono le posizioni in campo.

Il mondo occidentale

La nuova fase di scontro in Palestina ha raggiunto il culmine in occasione dell'inaugurazione dell'ambasciata Usa a Gerusalemme: solo 4 Paesi europei su 28 erano presenti alla cerimonia. Una dimostrazione del disappunto con cui è stata accolta la decisione statunitense, scongiurata fino all'ultimo dall'Unione europea, dall'Onu e anche da Papa Francesco, che aveva auspicato il mantenimento dello status quo.

Il rafforzamento della rappresentanza diplomatica americana nella città Santa ha infatti acuito le proteste del mondo palestinese, iniziate a fine marzo e culminate in occasione dellaNakba, il giorno della catastrofe, ovvero l'anniversario della nascita dello Stato di Israele 70 anni fa, che per i palestinesi ha significato l'abbandono forzato delle proprie terre.

La dura reazione militare delle forze di Tel Aviv, che hanno respinto circa 40 mila manifestanti al confine della Striscia di Gaza con un bilancio pesantissimo (una 60ina di vittime e circa 2.700 feriti) è stato duramente condannato sia dall'Europa che, soprattutto, dalla Turchia.

Arabia Saudita vicina a Israele

Molti esperti, invece, hanno notato il "silenzio assordante" dell'Arabia Saudita, alleato forte di Israele (e degli Usa), soprattutto in chiave anti-Iran. Il principe ereditario bin Salman non ha assunto posizioni di condanna nei confronti di Tel Aviv. D'altro canto a fine marzo, in occasione della visita a New York, ha incontrato i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche statunitensi. In quella occasione avrebbe affermato che è giunto il momento che i palestinesi accettino le proposte di negoziato dell'amministrazione Trump o "che se ne stiano zitti e smettano di lamentarsi".

Anche la copertura mediatica della Marcia della Ritorno palestinese, iniziata a fine marzo, è stata scarsa, così come quella dei fatti di Gaza. Il quotidiano Al Arabiya ha privilegiato la notizia dell'operazione al rene della First Lady, Melania Trump, a quella degli scontri violenti avvenuti tra il 14 e il 15 maggio.

Non va poi dimenticato che il genero del presidente Trump, Jared Kushner, presente insieme alla moglie Ivanka all'inaugurazione dell'ambasciata Usa a Tel Aviv, è stato l'artefice della bozza del piano di pace proprio tra israeliani e palestinesi, in lavorazione alla Casa Bianca. Un piano messo a punto in collaborazione con Ryad e che prevede la rinuncia formale dei palestinesi al "diritto del ritorno" nelle terre contese e il riconoscimento di Gerusalemme proprio come capitale di Israele. Con l'appoggio dell'Arabia, invece, si ipotizzerebbe la creazione di una capitale palestinese ad Abu Dis.

L'Egitto e la posizione ambigua

Anche dal Cairo non sono giunte dure prese di posizione dopo i fatti di Gaza. L'Egitto, nonostante abbia ospitato la riunione d'emergenza della Lega araba, si è limitato a una condanna formale dell'"uso della forza contro le marce pacifiche" e ha messo in guardia dalle "possibili conseguenze negative di questa pericolosa escalation nei Territori".

Il governo di al-Sisi ha deciso l'apertura straordinaria del valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, per favorire i soccorsi ai feriti, inviando alcuni convogli umanitari. Ma un analogo provvedimento è stato preso anche dallo stesso Israele, con 8 camion carichi di materiale medico che hanno raggiunto i luoghi degli scontri.

D'altro canto è da tempo che Il Cairo ha un ruolo fondamentale nella mediazione tra palestinesi (ANP e anche Hamas) e israeliani, e fa parte della cosiddetta Nato araba insieme alla stessa Arabia Saudita e agli Emirati Arabi. Infine, la collaborazione con Israele è salda soprattutto nel nord del Sinai, dove i due paesi sono impegnati insieme nella lotta contro cellule dell'Isis fuoriuscite da Iraq e Siria, dopo la caduta di Raqqa e Mosul.

Gli Emirati Arabi e la visita israeliana

Come l'Arabia, anche gli Emirati hanno interesse a che Israele non sia indebolito, perché rappresenta un alleato comune contro l'Iran. La riprova del fatto che le proteste di Gaza non hanno mutato la posizione del Paese è l'invito per Israele ad Abu Dhabi, partito proprio all'indomani degli scontri. Un evento che non ha precedenti fino ad ora (sarebbe la prima visita ufficiale di una rappresentanza diplomatica israeliana negli Emirati) e che segue un incontro "segreto", riferito dall'Associated Press, avvenuto a Washington il 12 maggio tra il premier israeliano Netanyahu e gli ambasciatori degli EAU e del Bahrein.

La Turchia contro Israele

La reazione più dura e immediata è giunta invece da Ankara, che ha deciso per l'espulsione (anche se temporanea) dell'ambasciatore israeliano. Eitan Naeh è stato perquisito in aeroporto, davanti alle telecamere, parlando poi di un trattamento "umiliante" senza precedenti.

Il presidente turco, Erdogan, ha definito quanto accaduto a Gaza "genocidio" e ha chiamato Israele "Stato terrorista". Deciso anche il richiamo dei propri rappresentanti da Tel Aviv e Washington.

La condanna della Lega araba

Dopo la prima dura condanna, nel giorno dei violenti scontri nella Striscia di Gaza, la Lega Araba è tornata a riunirsi, su richiesta dei palestinesi, con un vertice straordinario 48 ore dopo i fatti. La posizione è chiara: la decisione statunitense di trasferire la propria ambasciata viene considerata "illegittima" e si invoca un intervento internazionale. Per questo la Lega ha chiesto al procuratore della Corte Penale Internazionale l'apertura di un'indagine su quelli che definisce "crimini dell'occupazione israeliana", avvenuti il 14 maggio 2018.

In realtà la condanna è stata meno forte di quanto accaduto per altri eventi passati. Tra i fondatori dell'organizzazione, che conta 22 membri, ci sono infatti stati "vicini" a Israele, come Arabia Saudita ed Egitto. Altri paesi che ne hanno sancito la nascita nel 1945, invece, sono Iraq, Giordania, Libano e Siria: lo scontro interno alla Lega araba, dunque, ha pesato nella mancanza di un'azione più incisiva.

Onu: la difesa dei due Stati

Il primo a lanciare l'allarme sull'escalation di tensione e violenze tra israeliani e palestinesi è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che all'indomani degli scontri a Gaza si è detto preoccupato per "l'alto numero di persone uccise". "Non c'è alcun piano B alla soluzione dei due Stati che permetta a israeliani e palestinesi di vivere in pace" ha poi aggiunto.

Intervenendo al Consiglio di sicurezza Onu, invece, l’inviato per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha affermato che "non ci sono giustificazioni" per la "tragedia" di Gaza, rivolgendosi sia a Israele che ad Hamas. Una posizione comunque mitigata dal resto del suo discorso, nel quale ha riconosciuto a Israele il diritto a "protegge le sue frontiere dalle infiltrazioni e dal terrorismo", anche se l'intervento  - ha aggiunto - deve essere "proporzionato" e l'Onu deve "indagare in forma indipendente e trasparente".

Il fronte anti-Israele: Iran-Libano-ANP

Naturalmente le posizioni più dure sono giunte dall'Autorità Nazionale Palestinese, dal Libano e dall'Iran, nemico numero 1 di Tel Aviv. Il presidente dell'ANP, Abu Mazen, ha parlato di "massacro", puntando il dito anche contro gli Usa che "non sono un mediatore in Medio Oriente" e definendo l'ambasciata a Gerusalemme "un avamposto della colonizzazione".

La "guerra" delle ambasciate

Se l'ambasciata americana a Gerusalemme è al centro delle discordia, non sono mancate iniziative analoghe a quella di Washington: il Guatemala ha seguito l'esempio statunitense, trasferendo la propria sede diplomatica a Gerusalemme, il 16 maggio, appena due giorni dopo quanto fatto dagli Usa.

Di contro, il Belgio ha convocato l'ambasciatore di Israele per discutere delle violenze a Gaza, proprio mentre la Turchia decideva l'espulsione dell'ambasciatore israeliano dal proprio territorio. Il governo belga ha anche auspicato un'inchiesta internazionale per accertare le responsabilità.

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Eleonora Lorusso