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MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images
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Saif Gheddafi: l'idea di democrazia del figlio del raìs

Condannato a morte, è stato messo in libertà. In questa intervista del 2009 raccontava a Panorama quale futuro immaginasse per il suo Paese

Erano i primi giorni del settembre 2009: la famiglia Gheddafi era fortemente in sella al Governo della Libia. Il premier italiano era Silvio Berlusconi, quello francese  Nicolas Sarkozy. La primavera araba, e con questa la fine dell'era del  Muʿammar, sarebbe arrivata poco più di un anno dopo. Eppure sembrava tanto lontana.

Saif Gheddafi, delfino designato con orientamenti molto più filo occidentali dei suoi fratelli, in questa intervista immaginava per la Libia un futuro vagamente democratico, con i Gheddafi lontani dalle cariche politiche, ma saldamente ancorati al fondo sovrano di cui avevano il controllo.
"È il momento di pensare a creare una moderna Libia, una moderna economia, un vibrante sistema politico, retto da istituzioni efficienti. Servono leggi e una costituzione. La Libia va reinventata" diceva.

Niente è rimasto al suo posto.
Rapito durante la guerra, dopo quasi sei anni di detenzione nelle mani della tribù degli Zintani, il secondogenito del colonnello condannato a morte, è appena stato liberato, grazie a un’amnistia del parlamento di Tobruk.

La sua scarcerazione comporta diverse ipotesi sul suo futuro: c’è chi lo vuole morto, chi auspica che resti nascosto, chi lo vorrebbe processato all’Aja, chi addirittura immagina di vederlo alla guida della Libia, per riunire i molti nostalgici del regime.

Ecco come si raccontava a Panorama quasi otto anni fa.

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Da Tripoli.
Mentre suo padre, sotto il sole cocente del pomeriggio, è impegnato con Silvio Berlusconi nella posa simbolica della prima pietra dell’autostrada che percorrerà la Libia dalla Tunisia all’Egitto, lui se ne sta al fresco nella casa di famiglia.

Da qui, tunica bianca perfettamente stirata, infradito ai piedi, Patek Philippe al polso, Seif al-Islam Gheddafi, secondogenito del colonnello (da sempre considerato il delfino), non sembra curarsi più di tanto di quello che per tutti, da quelle parti, è l’evento del giorno. Adagiato sui cuscinoni del soggiorno, simile a quello di altre ville arabeggianti, se non fosse per quei leoni (imbalsamati) accovacciati sul pavimento, pare interessarsi molto più al futuro che al presente.

Istruito, bello, e curato in ogni particolare del suo aspetto, Seif sembra davvero incarnare il volto moderno del suo paese di cui, adesso, ha voglia di parlare.

Italia e Libia sono sempre più vicine al punto che alla vostra festa hanno partecipato le Frecce tricolori: quali sono i suoi rapporti personali con l’Italia?
Vado spesso in Italia, ho molti amici in tutti i settori, a tutti i livelli: dal business al mondo dell’arte. Per noi l’Italia è come una casa: con voi condividiamo il cibo (anche noi mangiamo la pasta), abbiamo un clima simile e siamo pure geograficamente molto vicini. Per arrivare in Sicilia ci vogliono solo 45 minuti. Siamo entrambi mediterranei: abbiamo abitudini e molti aspetti culturali comuni, condividiamo il fatto di essere aperti e caldi.

Chi sono i suoi amici in Italia?
Non voglio fare un torto ai miei amici nel citare o meno i loro nomi, posso dire che ne abbiamo molti, a tutti i livelli: in politica, negli affari, nelle banche, nell’industria, nella moda, nell’arte.

Suo padre è amico di Berlusconi. Lei lo ha conosciuto? Che opinione ne ha?
L’ho incontrato tante volte in Italia. E lui viene spesso in Libia. Berlusconi è uno dei nostri migliori amici in Europa. Penso ci sia un legame davvero diretto, anche personale, tra lui e mio padre. Sono molto vicini. È una relazione molto speciale, non solo politica. Per certi versi è simile al legame che avevamo con Massimo D’Alema. Anche quello era un rapporto d’amicizia profonda.

Anche con lei?
Sì, soprattutto.

Cosa pensa della politica italiana?Quali politici stima?
Come detto, Berlusconi, in primis, e D’Alema. Mi piace molto Berlusconi, penso sia un grande leader e un nostro grande amico, ma politicamente sono di sinistra: un socialista e non un conservatore. Quindi idealmente più vicino a D’Alema, ma è una posizione mia personale.

Parla di partiti e parti politiche ma nel suo paese non ne esistono. Crede che si arriverà mai alla formazione di libere forze contrapposte?
Penso che non sia corretto né pratico abolire i partiti. In assenza di formazioni politiche, ci dovrebbe essere un organismo talmente efficiente da convincere il popolo che i partiti non sono necessari. In questo caso, la gente potrebbe preferire la democrazia diretta. Quando funziona, è molto meglio di un governo retto dai partiti. Ma bisognerebbe essere molto efficaci a convincere i cittadini della non necessità delle forze politiche. Qualora non vi si riesca, abolire i partiti non è certamente un’idea intelligente, né un modo democratico di governare.

Quindi voi non siete democratici...
Qui in Libia, adesso, abbiamo bisogno di un solo movimento politico nazionale. Una missione in cui tutte le differenti fazioni e gruppi convergano per creare una forza nazionale con una sola agenda fatta degli stessi grandi obiettivi. E in futuro la costituzione.

Sogna la costituzione, ma deve fare i conti con il presente: a capo del suo paese oggi c’è un solo uomo. Come immagina la Libia dopo suo padre?
È il momento di pensare a creare una moderna Libia, una moderna economia, un vibrante sistema politico, retto da istituzioni efficienti. Servono leggi e una costituzione. La Libia va reinventata. Dopo di che saremo pronti ad affacciarci nel mondo moderno. È ora di modernizzare il paese, dalla A alla Z.

E i diritti umani? Non sembrano in cima alla vostra agenda governativa.
Sono, invece, molto soddisfatto dei nostri recenti risultati in materia. Abbiamo raggiunto un eccellente traguardo perché stiamo migliorando.

Eppure, Amnesty International accusa il suo paese di violare i diritti umani maltrattando i prigionieri politici. I vostri centri di detenzione per gli immigrati vengono paragonati a lager: sono critiche legittime?
Stiamo facendo del nostro meglio nei centri per gli immigrati clandestini. Ma è un duro lavoro. Abbiamo circa 1 milione di disperati in Libia che violano le frontiere ogni giorno: vi posso assicurare che i nostri uomini ce la mettono tutta. Non sono perfetti, ma stanno facendo del loro meglio.

Lei viene descritto come il più moderato e «occidentale» tra i figli del colonnello, da sempre considerato il delfino di suo padre. Che ruolo vede per sé nel futuro della Libia?
Sono felice di avere un ruolo nella società civile e di non ricoprire cariche militari. Quanto alla politica, ne abbiamo avuto tutti abbastanza. Mio padre è stato in politica per 40 anni. Penso sia sufficiente per la Libia e per la nostra famiglia. Noi potremo modernizzare l’economia, aiutare il nostro popolo, contribuire allo sviluppo del paese essendo attivi nella società civile libica. Penso che sia più prestigioso e rispettoso fare business in questo ruolo che in quello di premier o ministri.

Voi sette fratelli siete tutti d’accordo su questa posizione?
Assolutamente.

Al momento quindi lei esclude per sé un ruolo politico?
Io penso che dobbiamo cambiare il ruolo dei Gheddafi nel nostro paese. Senza puntare a fare i ministri o i politici. Secondo me è pure noioso. E poi noi vogliamo andare avanti, non indietro. Sarebbe come se l’Italia tornasse alla monarchia, con un re e una regina. Sarebbe buffo. E così in Libia: sarebbe curioso. Per non dire idiota.

Ha parlato con suo padre di tutto questo? Sicuro che sia d’accordo?
Certamente. Vedrete…

Quando partirà la modernizzazione da lei auspicata? Tra 5, 10 anni?
Oddio... Dieci anni sono tantissimi. Speriamo di iniziare da quest’anno. Magari finiremo tra 5 o dieci anni, questo è un altro discorso. Ma dovremmo cominciare adesso.

Stando a quello che dice la festa per i quarant’anni della Repubblica libica assumerebbe un nuovo significato. Quasi fosse la fine di un ciclo?
Sì. È quello che penso.

Lei stesso ha definito quello con l’Italia un rapporto privilegiato. Il nostro Paese è il primo partner commerciale della Libia. Dopo Eni, Unicredit e Finmeccanica, con quali altri gruppi le piacerebbe trattare?
Noi abbiamo investito in Finmeccanica, dove intendiamo aumentare il nostro peso, rafforzeremo anche il nostro ruolo in Eni ed entreremo in Enel. Non ci occuperemo invece né di Telecom né di Ferrari: sono più che altro chiacchiere.

Il «Financial Times» ha scritto che chiunque voglia trattare con la Libia doveva rivolgersi a lei. È così?
Una volta era così per le questioni più importanti. Se lei sta parlando di situazioni gravi e serie come le armi di distruzioni di massa, la questione Lockerbie o il rilascio di Al-Megrahi, è vero che li ho gestiti direttamente. Ma non lo farò più. Questa fase si è conclusa.

La Libia ha stipulato con l’Italia un importante accordo per il pattugliamento congiunto delle coste. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, però, ha qualche volta criticato il suo paese accusandolo di non rispettare i patti. Perché il meccanismo sembra incepparsi?
Penso che il fenomeno dell’immigrazione clandestina sia un problema molto serio per l’Italia, ma ancor più per la Libia. Noi abbiamo gli stessi nemici. Il terrorismo e l’immigrazione clandestina sono pericolosissimi per entrambi i nostri paesi e per l’intero Mediterraneo. Dobbiamo preoccuparci anche dei libici il cui paese è invaso da milioni di immigrati.

Non crede che potreste fare qualcosa di più per fermare le partenze dalle vostre coste?
Non abbiamo una marina efficiente, i nostri uomini devono diventare più rapidi, efficaci, attivi. Devo ammettere che non sono all’altezza: questa è una delle principali cause dell’inefficienza.

Parte della vostra impopolarità in Italia deriva dai mai dimenticati attacchi missilistici a Lampedusa del 1986. Perché lo faceste?
Semplice: l’America aveva bombardato il nostro paese e noi abbiamo cercato di bombardare Lampedusa, l’obiettivo non era l’Italia ma la Loran, la base militare americana là situata.

In lei convivono elementi di cultura araba, africana e occidentale: a quale società si sente più vicino?
Mi sento mediterraneo. Il punto in comune tra musulmani, cattolici, africani ed ebrei è il Mediterraneo. Il futuro politico e commerciale di questa area non va pensato arabo, europeo o africano, bensì mediterraneo.

Cosa vorrebbe portare in Libia di ciò che ha visto e imparato nei suoi anni di vita e studio all’estero?
La democrazia, di sicuro. Noi importiamo dall’Occidente auto, aerei, elettronica, mobili, perché non la democrazia?

Suo padre è d’accordo?
Prendiamo tutto dall’Occidente: usi, vestiti, scarpe, cibo. Cosa c’è di male se importiamo anche le vostre istituzioni politiche democratiche?

Alcuni giornali hanno alluso all’incrinamento dei rapporti fra lei e suo padre nel corso degli ultimi mesi: c’è qualcosa di vero?
No, niente affatto. Sono stato un po’ più defilato dalla scena solo perché sto pianificando di trascorrere sempre più tempo in Europa, specialmente a Londra, in cerca di affari. Vorrei sviluppare dei progetti con la scrittura e l’editoria.

Dove vive oggi?
Non ho una dimora fissa.

Questa è la sua casa in Libia?
Più o meno. Questa è la casa dei Gheddafi.

Quale pensa sia il più importante risultato politico di suo padre?
È una domanda difficile. Dovrebbe farla a lui.

Quale potrebbe essere il suo contributo alla Libia? Che cosa ha lei che suo padre non ha?
Poniamo la domanda in un altro modo. Io potrei suggerire l’idea che è venuto il momento di unirci tutti, mano nella mano, e lavorare insieme: la Libia ha bisogno degli sforzi di ogni cittadino per servire e aiutare il paese. Dal leader alla gente comune, dagli anziani ai più giovani.

Non più un solo uomo al comando, dunque?
Tutti noi dobbiamo lavorare.

Lei è a capo di una fondazione che porta il suo nome: di cosa si occupa? Quali gli obiettivi principali?
Anzitutto fare della nostra fondazione una delle principali ong dell’area mediorientale. Abbiamo fatto compiere al paese passi da gigante per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani diventando, da questo punto di vista, il primo di tutti i paesi del Medio Oriente.

Ma siete comunque fuori dalla convenzione di Ginevra...
Questo riguarda accordi tra i governi. Per ora siamo soddisfatti dei nostri progressi. È già un grande traguardo.

Si è sempre mostrato comprensivo nei confronti della causa di Israele (ha anche avuto una fidanzata ebrea, Orly Weinerman). Sostiene ancora, come suo padre, la tesi di un unico stato federale israelopalestinese?
Siamo d’accordo sul fatto che dovrebbero unirsi in un unico paese: democratico, cosmopolita e liberale. Mio padre sogna uno stato con arabi ed ebrei insieme, come il Sud Africa, dove convivono bianchi e neri.

Tra i suoi meriti c’è quello di avere aiutato la Libia a ricucire i rapporti con gli Usa, inducendo suo padre ad abbandonare la corsa alle armi di distruzione di massa. Come ha giudicato le dure critiche britanniche e statunitensi ai vostri festeggiamenti per il rimpatrio di Al-Megrahi? Era necessario accogliere da eroe un uomo condannato per terrorismo?
C’è stato un grosso fraintendimento da parte di entrambi quei paesi. È stata una libera decisione delle autorità scozzesi, noi lo abbiamo solo accolto. All’aeroporto c’erano la sua famiglia e i suoi amici. Nient’altro. Nessun festeggiamento ufficiale.

Si è parlato anche di un suo ruolo attivo nel rilascio di Al-Megrahi, è vero?
Sì. Io ho lavorato sodo per molti anni per il suo rilascio. Questo è il mio personale traguardo.

Allora non è stata così spontanea la decisione della Scozia? Il «Sunday Times» ipotizza qualche connessione tra il rilascio del terrorista e il vostro petrolio.
La decisione di liberarlo è indipendente da qualunque business legato al petrolio. Io penso che la corte scozzese abbia preso la giusta decisione per motivi umanitari: lui è malato.

Che idea si è fatto del presidente americano Barack Obama? Potrà essere un più gradito mediatore tra cristiani e musulmani?
Noi di questa parte del mondo siamo molto ottimisti che questo presidente sia quello giusto. Credo che lui cambierà il nostro modo di vedere l’America per via della sua considerazione dell’Islam e del mondo arabo. Lui, qui, è molto popolare. Lo ha mai incontrato? No.

Lei proviene da una delle più famose e potenti famiglie del mondo. Quali sono i rapporti tra voi fratelli? I giornali vi fanno apparire molto diversi.
Sì, siamo molto diversi, ci tengo a dire che non sono io il festaiolo della famiglia. Spesso le persone fanno confusione e mescolano le notizie su di me con quelle sui miei fratelli. E non mi piace. Diciamo che io sono quello serio. Gli altri sono giovani, si divertono. E fanno bene.

Si racconta di una certa competizione tra voi fratelli, legata anche al futuro politico della Libia.
Non sento il bisogno di competere con nessuno.

Rispetta i dettami della sua religione?
Certamente. Sempre. Io sono religioso. In questi giorni sto digiunando per il Ramadan, prego, seguo i dettami dell’Islam.

Nel nostro Paese fu apprezzato anche per la sua pittura. Tra i suoi supporter c’è persino Vittorio Sgarbi. Dipinge ancora?
Per ora no. Ma sul mio sito Thedesertisnotsilent.com può trovare i miei quadri. Saranno in mostra a New York nei prossimi due mesi.

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Lucia Scajola

Nata e cresciuta a Imperia, formata tra Milano, Parigi e Londra, lavoro a Panorama dal 2004, dove ho scritto di cronaca, politica e costume, prima di passare al desk. Oggi sono caposervizio della sezione Link del settimanale. Secchiona, curiosa e riservata, sono sempre stata attratta dai retroscena: amo togliere le maschere alle persone e alle cose.

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