Rischio genocidio in Congo
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Rischio genocidio in Congo

Decine di migliaia di sfollati, migliaia di morti e scoontri senza quartiere per il controllo delle risorse: il nord Kivu è isolato

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Un nuovo Rwanda nell’est della Repubblica Democratica del Congo. È l’allarme lanciato negli ultimi giorni tra Bruxelles e Strasburgo da diversi europarlamentari che hanno denunciato i massacri che nell’est del Paese dell’Africa centrale si stanno consumando nel silenzio dell’opinione pubblica mondiale.

Indipendente dal Belgio dal 1960, quasi 80 milioni di abitanti, da anni le aree più critiche della Repubblica Democratica del Congo sono le province orientali del Nord Kivu, del Sud Kivu e del Katanga in cui è forte la presenza di fazioni ribelli avverse al governo centrale di Kinshasa, guidato dal 2001 dal presidente Joseph Kabhila.

Secondo l’agenzia Fides, organo di informazioni delle pontificie opere missionarie, tra l’ottobre del 2014 e il maggio del 2016 sono state oltre 1.100 le persone uccise nei territori di Beni, Lubero e Rutshuru situati nel Nord Kivu. Ai morti si sommano quasi 1.500 persone rapite. Quasi 35mila famiglie sono state costrette a lasciare le loro abitazioni, mentre sono centinaia i casi di violenze sessuali su donne e minori.

 Da anni, dunque, la quotidianità di questi luoghi dimenticati dal mainstream mediatico è contraddistinta da case, presidi sanitari e scuole dati alle fiamme, villaggi razziati e sistematici soprusi sulle popolazioni locali. A colpire in quest’area sono diversi gruppi armati, tra cui i rwandesi di etnia Hut delle FDLR (Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda), gli islamisti ugandesi dell’ADF/NALU (Allied Democratic Forces), il Raggruppamento Congolese per la Democrazia-Kisangani/Movimento di Liberazione (RCD-K/ML) e altre milizie.

 Nel mirino delle denunce degli europarlamentari e delle ONG che denunciano il protrarsi dell’emergenza c’è l’esercito regolare della Repubblica Democratica del Congo (FARDC, (Forces Armées de la République Démocratique du Congo), i cui soldati sono stati accusati di non essere intervenuti in più occasioni per fermare i massacri e di aver messo le mani su traffici illegali di vario genere e di vendere autonomamente le risorse minerarie che si trovano nell’area.

 

Accuse sono rivolte anche alla missione ONU che opera nel Paese, MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo). Nonostante sia una delle missioni più imponenti attualmente dispiegate dalle Nazioni Unite (può contare su una forza di circa 20mila unità), MONUSCO non si sta dimostrando in grado di fermare la crisi. Inoltre, due degli Stati che ne fanno parte - l’Uganda e il Rwanda - sono sospettati di fornire sostegno militare a quegli stessi ribelli contro cui combattono la missione ONU e le forze regolari della Repubblica Democratica del Congo.

 

Gli ultimi aggiornamenti
A Strasburgo nei giorni scorsi il gruppo S&D (Socialisti e Democratici), il cui presidente è Gianni Pittella del Partito Democratico, ha chiesto all’ONU di avviare un’inchiesta e intimato l’UE di inviare sul posto un suo rappresentante speciale. Richiami sono arrivati anche dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, due dei Paesi che in questi anni hanno inviato i maggiori finanziamenti alla missione e che hanno sostenuto economicamente e militarmente le forze armate di Kinshasa.

 Da almeno due mesi diverse ONG che operano in Repubblica Democratica del Congo lamentano l’impossibilità di poter far pervenire aiuti umanitari in particolare nell’area di Mpati, nel Nord Kivu, dove circa 50.000 persone sono stati costrette ad abbandonare i campi profughi a causa degli scontri tra l’esercito regolare e i ribelli Hutu rwandesi delle FDLR. L’allarme è stato lanciato più volte anche dall’organizzazione ONU OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) che ha informato del blocco dell’invio di aiuti nei territori di Rutshuru, Beni, Lubero, Masisi e Walikale a causa del rapimento a sud di Lubero di quattro operatori umanitari poi rilasciati.

Le origini del conflitto
Per comprendere ciò che sta accadendo nell’est della Repubblica Democratica del Congo occorre fare un passo indietro e mettere a fuoco principalmente tre questioni: il ruolo del presidente Khabila, le ingerenze di Rwanda e Uganda e gli interessi energetici ed economici in gioco.

Il presidente Kabila è al potere dal 2001 dopo l’assassinio del padre Laurent-Désiré Kabila. Questi nel 1997, tra le due guerre del Congo del 1996-97 e del 1998-2003, con l’appoggio del Rwanda di Paule Kagame aveva deposto il presidente di allora Mobutu Sese Seko archiviando di fatto la storia dello Zaire.

Da allora l’ombra di Kagame non ha però più abbandonato la Repubblica Democratica del Congo. In questi anni Kagame è stato infatti accusato più volte dalla comunità internazionale di sostenere economicamente e militarmente vari gruppi ribelli, compreso il movimento M23, che nell’aprile del 2012 si era rivoltato contro il governo centrale di Kinshasa occupando la regione del Kivu per protestare contro l’emarginazione della minoranza etnica Tutsi e rivendicare l’equa distribuzione dei profitti derivati dallo sfruttamento delle importanti risorse minerarie del Paese.

 Nella Repubblica Democratica del Congo - ed è questa la terza questione da mettere a fuoco - sono presenti centinaia di miniere di oro, diamanti, stagno, cobalto, rame, bauxite e, soprattutto, ingenti quantità di minerali tra cui il coltan, combinazione di columbite e tantalite, essenziale per il business dell’industria elettronica globale poiché consente il risparmio di corrente elettrica nei chip di smartphone, videocamere e computer portatili.

È su questa enorme ricchezza che convergono gli interessi di chi oggi sta mettendo a ferro e fuoco la regione del Kivu. Nonostante abbia risolto in parte il problema dell’M23 (il movimento è stato neutralizzato alla fine del 2013 a seguito di un massiccio intervento delle forze MONUSCO ma buona parte dei suoi miliziani non sono stati integrati nell’esercito regolare), Kabhila ha molti altri nemici da fronteggiare, comprese le opposizioni interne che spingono per ottenere nuove elezioni presidenziali e politiche entro il prossimo novembre. Il presidente sembra però intenzionato a continuare a governare nonostante la Costituzione gli impedisca di correre per un terzo mandato consecutivo.

 Se non arriverà in tempi brevi un segnale forte dalla comunità internazionale, che finora ha chiuso più volte un occhio sulla condotta di Kabhila, per la Repubblica Democratica del Congo si prevede una lunga estate di tensioni. E violenze e soprusi continueranno a dilagare nella disperata regione del Kivu.

 

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Rocco Bellantone