Perché l'Austria vieta il velo integrale e la distribuzione del Corano
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Perché l'Austria vieta il velo integrale e la distribuzione del Corano

Dai controlli sui treni alle misure contro l'islamismo: il pugno duro di Vienna, considerata fino a ieri rifugio sicuro per jihadisti balcanici e caucasici

Il 28 marzo il governo austriaco guidato dal cancelliere socialdemocratico Christian Kern ha formalizzato il divieto di indossare il burqa e distribuire copie del Corano per le strade (pratica conosciuta come Dawa Street).

Oltre che per il burqa, il divieto è stato imposto anche per qualsiasi altro tipo di velo che nasconda il viso delle donne nei luoghi pubblici, pena una multa di 150 euro. Il divieto di indossare il velo integrale è invece già in vigore in altri Paesi europei: Francia, Belgio, Bulgaria e in alcuni cantoni in Svizzera.

Dal governo di Vienna non solo misure repressive, ma anche lo stanziamento di più mezzi per favorire l’integrazione dei profughi che arrivano nel paese. Per loro saranno previsti corsi di lingua e cultura tedesche obbligatori nel primo anno di presenza in territorio austriaco.

Queste misure fanno parte del rinnovato pacchetto “Sicurezza e Integrazione” e sono state così commentate da Sebastian Kurz, ministro degli Esteri e dell’Integrazione, esponente del Partito Popolare Austriaco OVP, che governa in coalizione con i socialdemocratici: «Solo in questo modo le persone potranno elaborare il rispetto verso la società (austriaca, ndr)».

Parole che non lasciano spazio a interpretazioni e che certificano l’approccio duro su cui l’Austria ha deciso di puntare nella gestione del tema dei migranti, di fatto in linea con le posizioni assunte dal “Gruppo di Visegrad” formato da Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca.

È in quest’ottica che va interpretata anche l’intenzione di controllare d’ora in avanti tutti i treni in arrivo dall’Italia al valico del Brennero nella stazione di Brennersee. Qui verrà realizzato un apposito binario separato dal resto del traffico ferroviario internazionale. L’operazione costerà un milione di euro e comporterà sicuramente nuovi problemi nei rapporti bilaterali con l’Italia, e non solo.

Il fondamentalismo in Austria, un problema reale
Al netto delle polemiche innescate a livello europeo da queste decisioni, resta la realtà di un Paese che per la sua posizione geografica da decenni viene considerato un rifugio sicuro da numero jihadisti provenienti dai Balcani, dalla Turchia e dal Caucaso, aree notoriamente fertili per l’estremismo islamico in cui le monarchie del Golfo - e in particolar modo l’Arabia Saudita - continuano a investire in modo massiccio per promuovere il wahhabismo, ovvero la versione più dura e pura dell’Islam.

Basta dare un’occhiata solo ad alcune delle storie di fondamentalisti nati in Austria o che in questo Paese hanno deciso di mettere radici negli ultimi anni. Emblematico il caso di Mohammed Mahmoud, noto come Abu Usama al-Gharib, nato a Vienna nel 1985 da un padre membro dei Fratelli Musulmani fuggito dall’Egitto e accolto come rifugiato in Austria.

Radicalizzatosi sin da giovane, Abu Usama al-Gharib prima è diventato uno dei leader di Global Islamic Media Front (GIMF), organizzazione salafiti con provati legami con Al Qaeda. Successivamente, si è messo a capo del gruppo Millatu Ibrahim (costituito nel 2011 e messo fuori legge nel 2013, ndr) insieme al rapper tedesco Dennis Cuspert, alias Abu Talha al-Almani, con il quale avrebbe poi raggiunto la Siria per combattere. Il condizionale è d’obbligo viste le numerose indiscrezioni secondo le quali sarebbero entrambi morti nei combattimenti. Abu Usama al-Gharib è diventato celebre anche per i suoi video. In uno di questi bruciava il suo passaporto austriaco osannando lo Stato Islamico del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi e invocando il jihad globale.

Abu Usama al-Gharib è uno dei circa 300 austriaci di età compresa tra i 18 e i 35 anni, andati a combattere in Siria e Iraq secondo le ultime stime delle autorità di Vienna. Di questi, 20 sono donne alcune delle quali minorenni. Più di 70, invece, sarebbero tornati in Austria. Si tratta prevalentemente di cittadini austriaci di origine cecena, turca o balcanica.

Tra i minorenni, il caso più eclatante è quello di due giovani viennesi di origine bosniaca. Si tratta di Samra Kesinovic (16 anni) e di Sabina Selimovic (15 anni), entrambe fuggite in Siria il 10 aprile del 2014 lasciando il seguente messaggio ai rispettivi genitori: «Arrivederci in paradiso».

Le due adolescenti, radicalizzatesi in tempi brevissimi nella moschea Hidaya nel quartiere Prater a Vienna, giunte in Siria hanno sposato dei miliziani. Nell’estate del 2015 Samra Kesinovic è stata massacrata di botte mentre cercava di tornare in Austria, una volta compresa la follia commessa. Sabina Selimovic, invece, è morta in un bombardamento nello stesso periodo.

Nonostante i controlli e gli arresti, molti predicatori riescono a operare liberamente non solo in Austria ma anche in Svizzera e Germania, incoraggiando la nascita di nuovi gruppi di proselitismo. Il movimento più attivo in Svizzera si chiama “We Love Muhammad”, espressione del più ampio movimento di diffusione dell’Islam “LIES!”. Mentre in Austria quello più in mostra è “Iman”, operativo anche in Svizzera con il supporto del Consiglio centrale islamico svizzero. Finanziamenti e collegamenti dall’estero sono sempre gli stessi: Balcani, Turchia e Arabia Saudita. Così come la missione: formare nuovi predicatori di strada in modo convertire un numero sempre maggiore di giovani e fragili “miscredenti”.

Tutte queste informazioni, e molte altre relative al fondamentalismo islamico e alla penetrazione del salafismo in Europa, sono reperibili nel volume Allarme Europa (G-Risk, 2017).

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Stefano Piazza