Perché la Giordania è una polveriera (a rischio Isis)
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Perché la Giordania è una polveriera (a rischio Isis)

Un Paese in crisi, alle prese con povertà altissima: un contesto che favorisce l'integralismo islamico e la radicalizzazione

Dopo 7 anni di guerra in Siria, gli scontri si concentrano nel sud del Paese, al confine con Israele e Giordania. Proprio a questo paese si rivolgono le attenzioni, per il rischio di infiltrazioni dell'Isis di fronte all'avanzata delle forze governative siriane dopo le battaglie in città siriane come Daraa, assediate dalle forze governative. Solo pochi giorni fa, inoltre, c'è stata l'operazione che ha permesso la fuoriuscita di 800 cosiddetti "Caschi Bianchi", i volontari della Difesa civile siriana, tratti in salvo in territorio israeliano e poi trasferiti in Giordania.

Ma l'estrema povertà in cui versa il Paese, unita al rischio di infiltrazioni di elementi radicalizzati in fuga dalla Siria, rischia di far precipitare il Paese in un baratro.

Il rischio infiltrazioni

L'identità e l'operato dei Caschi Bianchi è una delle fonti di preoccupazione. Si tratta di volontari e  oppositori al regime di Assad che in questi anni di guerra hanno soccorso migliaia di vittime dei bombardamenti, hanno denunciato l'uso di armi chimiche in città come Douma (senza, però, che le loro accuse trovassero riscontri) e hanno operato in aree occupate dai ribelli. Per questo sono considerati da Damasco vicini agli islamisti, se non apertamente "terroristi".

Finora avevano ricevuto fondi da Stati Uniti, Regno Unito e altri Paesi europei, ma proprio Washington ha deciso di tagliare i finanziamenti alla loro attività (sono stati congelati 200 milioni di dollari previsti). I fuoriusciti non potranno neppure essere accolti in America per via del muslim ban, perché provenienti da un Paese considerato a rischio terrorismo. Su di loro, poi, pesa il sospetto che possano nascondere infiltrati dell'Isis.

Saranno dunque assistiti in Giordania e in parte trasferiti in altri Paesi europei. Per ora hanno trovato rifugio ad Amman, grazie a un'operazione che ha visto la collaborazione tra Israele, Russia e Francia.

Il rischio di infiltrazioni terroriste

Da tempo il governo giordano ha deciso il rafforzamento dei controlli alla propria frontiera, chiusa agli stessi siriani in fuga dal conflitto, per il timore di ingresso da parte di miliziani jihadisti, in fuga dal sud della Siria dopo la caduta di roccaforti dell'Isis come Mosul e Raqqa. I pattugliamenti del confine, lungo 224 km, sono stati resi possibili da un ingente dispiegamento di forze, oltre che dalla tecnologia, in parte fornita dagli Stati Uniti. Secondo Fares Kreishan, esperto militare, sarebbero stati individuati segnali della volontà dei miliziani dell'Isis di trasferirsi nella valle di Al Yarmuk, proprio nei pressi del confine giordano-israeliano. 

Con le frontiere chiuse, Re Abdallah e l'esecutivo hanno deciso l'allestimento di campi di accoglienza per la popolazione siriana provata dai bombardamenti siriani, nei quali però le condizioni igienico-sanitarie sono precarie e scarseggiano gli stessi generi di prima necessità, a partire dall'acqua.

Tutto ciò ha aumentato una tensione sociale già elevatissima, a causa di un livello di povertà crescente anche tra la stessa popolazione giordana. E' proprio tra le sacche di abitanti più provati che aumenta il rischio di reclutamento di miliziani islamisti.

Crisi economica, proteste di massa e cambio di governo

Per fronteggiare una crisi senza precedenti, il governo aveva previsto rincari nel prezzo della benzina (già quintuplicato da inizio anno), dell'energia elettrica (cresciuto del 55%) e un aumento generalizzato di alcune tasse che hanno causato proteste da parte della popolazione. Al momento la nuova legge fiscale è stata "congelata", ma resta altissima la tensione sociale. A guidare le manifestazioni di piazza, che sono andate in scena da fine maggio, sono sindacati, sigle politiche e movimenti sociali, che hanno portato miglia di persone a sfilare per le strade di Amman.

A inizio giugno Re Abdallah ha deciso la sostituzione del premier dimissionario Mulqi con Omar al Razzaz, già ministro dell'Istruzione ed ex economista della Banca Mondiale, con una formazione negli Usa ad Harvard. Ma questo provvedimento potrebbe non essere sufficiente.

Il debito pubblico è passato in 8 anni dal 57% al 94% del Prodotto Interno Lordo, complici anche la corruzione e l'inefficienza dei precedenti governi, che hanno stanziato fondi per l'accoglienza di profughi siriani (ne sono giunti 700mila) prevedendo l'arrivo di finanziamenti che poi invece si sono rivelati insufficienti sia a coprire i costi che a sostenere l'economia giordana.  

Da qui la necessità di tagli dello Stato ai sussidi sociali per i più poveri (8 milioni di persone). Misure analoghe sono previste per rispondere alle richieste del Fondo Monetario Internazionale, che ha erogato oltre 700 milioni di dollari di prestito in tre anni, in cambio di severe misure di contenimento della spesa pubblica e una riforma fiscale rigida.

Il tasso di disoccupazione è al 18%, ma i giovani senza lavoro rappresentano il 40%. Un giordano su 5 vive al di sotto della soglia di povertà e il Pil annuale è pari a 39 miliardi di dollari.

A peggiorare la situazione ci sarebbe stato un drastico calo degli investimenti esteri, a favore invece di Paesi confinanti e dell'area mediorientale come l'Egitto, che garantirebbe invece alle imprese condizioni fiscali ben più allettanti.

La piaga del lavoro minorile

In questo contesto aumenta la piaga del lavoro minorile. I conflitti crescenti nell'area mediorientale hanno spinto molti giovani tra i 5 e i 17 anni a lavorare per aiutare le famiglie in difficoltà. Secondo UNICEF in Giordania il numero di bambini lavoratori è raddoppiato dal 2007: sarebbero 76mila, dei quali 44mila impiegati in lavori a rischio. Secondo Miraj Pradhan, capo delle comunicazioni della sede UNICEF della capitale giordana, molti di questi lavorerebbero più di 33 ore alla settimana. Si tratterebbe soprattutto di maschi (88,3%), per lo più giordani (80%), ma non mancherebbero giovanissimi siriani (14,6%) quasi certamenti figli di profughi.

Molti sarebbero esposti a pericoli di vario genere, dalle condizioni di lavoro a rischio (fumo e inquinanti) ad abusi fisici e psicologici. Nonostante la legge proibisca il lavoro ai minori di 16 anni, nel 93% dei casi sono le condizioni di povertà delle famiglie a portare a impiegare i bambini in occupazioni di varia natura.

L'UNICEF ha messo a punto un apposito programma di sostegno, ma i 28 dollari al mese per bambino che vengono erogati ai più bisognosi tra i 55.000 minori rifugiati siriani non sono sufficienti a garantire loro il diritto allo studio, quindi nella maggior parte dei casi le famiglie non si possono permettere di mandarli a scuola.

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Eleonora Lorusso