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Perché i sondaggi potrebbero sottostimare Trump

Il reale peso del candidato repubblicano sfugge agli schemi classici della statistica politica. Un potenziale inespresso che potrebbe fare la differenza

Per Lookout news

La maggior parte dei sondaggisti concorda sul fatto che alle elezioni generali dell’8 novembre Hillary Clinton e i democratici partono già con un notevole vantaggio a livello nazionale. Eppure, la natura insolita di Donald Trump e la singolarità della sua campagna elettorale, forte nei toni e quanto mai aliena rispetto ai temi cari alle élite liberal del “politically correct” (ma molto graditi al ceto medio silenzioso), rappresentano un elemento di novità assoluta nel panorama politico americano, che colora d’incertezza la corsa verso la presidenza.

I sondaggi: vittoria sicura per Hillary Clinton

Il reale peso specifico di Trump, infatti, sfugge alle percentuali ed è sempre più difficile da quantificare secondo gli schemi più classici della statistica politica. Ed è proprio quel potenziale inespresso che di qui al giorno del voto potrebbe fare la differenza, spostando il voto degli americani fino a fare dell’outsider repubblicano il prossimo Commander-in-chief.

I più esperti analisti americani suggeriscono che a determinare il vincitore saranno i voti di 11 dei 50 stati americani, come già accaduto nelle due precedenti elezioni. Colorado, Florida, Iowa, Michigan, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin saranno i test per eccellenza. In tutti questi stati, il democratico Barack Obama ha vinto in entrambe le competizioni elettorali: ne ha conquistati 11 su 11 nel 2008 e 10 su 11 nel 2012. Anche per il 2016 i democratici si confermerebbero avanti.

La spiegazione che si danno gli analisti è che Trump è più forte solo nell’elettorato dei bianchi senza un diploma di scuola superiore, mentre tra gli elettori non bianchi (principalmente, ispanici e afroamericani) lo spostamento verso i repubblicani è meno significativo o manca del tutto. E, negli 11 stati in esame, i non bianchi rappresentano quote sempre dominanti. La fluttuazione verso i democratici, insomma, è più forte laddove si trovano maggiori concentrazioni di comunità miste.

Questo avrebbe dovuto sconsigliare lo sprezzante tycoon newyorchese dal rendersi protagonista di attacchi virulenti contro le minoranze etniche, visto che i bianchi d’America sono in calo sia demograficamente sia come quota dell’elettorato attivo (già oggi tre elettori su dieci non rappresentano più questa categoria). Invece, Trump non si è frenato e ha vinto lo stesso le primarie. La questione, dunque, non può ridursi al mero calcolo su base razziale, anche se sino a oggi è stato un indicatore fondamentale per anticipare le intenzioni di voto.

11 mosse per vincere

Secondo il think tank americano Politico, l’attuale orientamento degli 11 stati-chiave ci consegnerebbe un quadro piuttosto chiaro. Lungo la regione cosiddetta del Sun belt, la cintura di stati che si estende dal Pacifico all’Atlantico e che occupa la fascia meridionale del Paese, la situazione è la seguente: in Colorado la quota di non bianchi è pari al 22 per cento (2012), in florida è al 33 per cento, in Nevada al 36, North Carolina e Virginia al 30 per cento ciascuna. Anche se questo raggruppamento di stati (che vale 72 voti elettorali) è disomogeneo per caratteristiche e cultura, essi hanno molto in comune: ad esempio, tutti e cinque gli stati hanno votato entrambe le volte per il repubblicano George W. Bush, salvo poi consegnarsi interamente a Obama nel 2008 e anche nel 2012, quando si è perso per strada solo il North Carolina per una manciata di voti. Nel complesso, dunque, in ciascuno di questi stati l’elettorato non-bianco ha superato la quota del 28 per cento sulla media nazionale, ad eccezione del Colorado.

Gli elettori “latinos” sono in netta crescita in almeno tre di questi stati: rappresentano, infatti, il 19 per cento in Nevada (erano al 15 nel 2008), il 17 in florida (dove erano al 14) e il 14 per cento in Colorado (dal 13). Mentre gli afro-americani rappresentano almeno un elettore su cinque sia in North Carolina che in Virginia. Negli stati orientali i sondaggi indicano dunque un tendenziale vantaggio della Clinton. Mentre per il Colorado vale l’esperienza non proprio positiva di Obama, che qui ha ottenuto il 53 per cento dei voti nel 2008, scivolando però al 51 nelle elezioni di medio termine. Stesso dicasi per il Nevada, dove l’attuale presidente è sceso dal 55 nella prima tornata fino al 52 per cento nel 2012.

 

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Negli stati del blue wall, ovvero quelli in cui i democratici vincono quasi sempre (e che valgono 74 voti elettorali), la situazione è diversa: l’Iowa conta un 7 per cento di voti non bianchi, il Michigan il 23 per cento, il New Hampshire il 7, l’Ohio il 21, la Pennsylvania il 22 e il Wisconsin il 14 per cento. Qui Obama ha vinto in entrambe le elezioni, mentre i repubblicani non vincono nel Michigan e in Pennsylvania dal 1988, e nel Wisconsin dal 1984. Anche “The Donald” ha perso le primarie in metà di questi stati. Eppure, qui è molto forte la maggioranza di elettori bianchi, in alcuni casi in maniera schiacciante. Segno che qualcosa non torna e che la partita è aperta e tra- sversale a questi calcoli statistici.

Da soli, questi 11 stati valgono 151 dei 270 voti elettorali più uno necessari a ottenere la vittoria, ovvero più della metà. Se Trump dovesse vincere qui e nei quattro stati più popolosi d’America, ovvero la California (55 voti), il Texas (38), New York (29) e la Florida (29), sarebbe di certo il prossimo inquilino della Casa Bianca.

La California, il più popoloso di tutti, rappresenta un caso a sé. Qui, infatti, la popolazione non bianca è passata dal 37 al 45 per cento nelle ultime elezioni, e dal 1992 in poi ha consegnato solo vittorie per i democratici. Eppure, dal 1952 fino al 1988, il Golden State ha sempre votato per il candidato repubblicano, con l’eccezione di Lyndon Johnson nel 1964. Trump si è detto più volte ottimista sulla conquista della California, anche se a oggi l’impresa appare difficilissima. Certo è che il candidato del GoP ha già dimostrato di poter battere agilmente i candidati “latini” del suo partito: prima Marco Rubio e Ted Cruz, entrambi di origini cubane. Segno che l’elettorato ispanico – fortissimo in California – non solo non rappresenta un blocco granitico, ma non è neanche particolarmente affezionato alle corse elettorali. Inoltre, con la vittoria in California (1.173.893 di voti), Trump ha superato i 13 milioni di preferenze alle primarie, il record di sempre per un candidato repubblicano (ben oltre il precedente record di 10,8 milioni detenuto da George W. Bush). Così, mentre il Texas è senz’altro alla portata dei repubblicani (Obama qui ha preso solo il 41 per cento dei voti nel 2012) e la Florida potrebbe restare in mani democratiche (dopo la contestatissima eccezione di George W. Bush, che nel 2000 divenne presidente proprio grazie ai voti di questo stato, Obama qui ha sempre vinto), alla fine il vero ago della bilancia potrebbe rivelarsi lo stato di New York: qui il presidente uscente ha ottenuto il 63 per cento dei voti nel 2012, e i sondaggi vedono stabile Hillary Clinton, in vantaggio di quasi 20 punti.

Ciò nonostante, questo è lo stato dove Donald Trump è nato e ha costruito le sue fortune. E se è vero che queste sono le elezioni meno prevedibili di sempre, c’è da aspettarsi che un outsider come lui, che solo un anno fa (16 giugno 2015, quando ha annunciato la sua “discesa in campo”) partiva da un misero 3,6 per cento negli indici di gradimento repubblicani ed era il nono tra i candidati preferiti dagli elettori del GoP, possa spiazzare e persino ribaltare quelli che in fondo sono solo numeri e proiezioni.

La middle class alla riscossa

C’è, infatti, una larga parte del popolo americano – in particolare la storica middle class – che mal digerisce una democrazia che arranca, che non funziona e che ha tradito lo scopo per cui era nata. Questa pancia del Paese è disillusa e arrabbiata, poiché vede come illegittimo lo stesso governo federale, che non riesce più a garantirgli lo status sociale e il tenore di vita del Novecento. Tutto ciò li spaventa e li destabilizza. Allora, meglio rivolgersi all’uomo forte, pur se illiberale e populista, uno che rompe le convenzioni e promette di cambiare tutto, attaccando chiunque si metta contro di lui. Non è un caso se «Sei licenziato» è la frase più gettonata di Donald Trump. Il repubblicano anomalo vorrebbe licenziare i «media bugiardi», i conservatori «che hanno tradito», e tutti gli ostacoli di un cerimoniale democratico che ai suoi occhi ha reso l’America più debole e impotente che mai. E questa promessa incontra un successo inaspettato, come se avere meno democrazia ma più successo fosse un compromesso accettabile per quella fetta di americani che ancora non si è ripresa dalla crisi economia dell’ultimo decennio. Trump non è da solo a cavalcare il populismo e a soffiare sul vento dell’autoritarismo. Anche in Europa i populisti vengono premiati un po’ ovunque, sia a destra che a sinistra. Da Marine Le Pen a Viktor Orban, da Nigel Farage a Beppe Grillo, da Alexis Tsipras a Jeremy Corbin, i risultati delle urne premiano oltre ogni ragionevole previsione le personalità antisistema o antidemocratiche.

Forse “The Donald” non conquisterà New York a novembre. E nemmeno la metà degli 11 stati-chiave. Forse le urne confermeranno il gap di 20 punti che vede Clinton trionfante a novembre (in attesa di vedere come impatteranno sulla pancia degli elettori gli scandali di cui Hillary si è resa protagonista). Ma, quali che siano i problemi che ha sollevato, oggi Trump si afferma come il candidato repubblicano più votato nella storia delle elezioni americane.

Dato che, se conferma il sostegno dell’americano medio nei suoi confronti, potrebbe convincere i finanziatori che inizialmente avevano manifestato perplessità sulle posizioni del tycoon newyorchese a tornare sui propri passi e sostenere economicamente la sua campagna presidenziale. In definitiva, il populismo, l’autoritarismo e la demagogia che avanzano pericolosamente in tutto il mondo e che Trump incarna così mirabilmente (con furba razionalità e cinico tatticismo), potrebbero pesare quanto se non più delle categorie statistiche con le quali siamo stati abituati a ragionare sino ad oggi. E poiché la cultura dominante nel mondo occidentale è ancora guidata stabilmente dagli Stati uniti d’America, saranno gli USA a offrire al mondo intero la vittoria definitiva della democrazia rappresentativa o piuttosto del populismo autoritario.

Da un estratto del libro USA VS. Trump, edito da Lookout Group in collaborazione con G-Risk

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Getty Images
Donald Trump al secondo dibatitto tv con Hillary Clinton a St. Louis - 9 ottobre 2016

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Luciano Tirinnanzi