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Perché Erdogan va alla guerra

Il "Sultano" cerca di liberarsi dei curdi ma anche rilanciare il potere interno appannato dalla crisi economica e sociale

da Istanbul, Marta Ottaviani

La Turchia sfida tutti e attacca il nord della Siria o almeno è quello che ha iniziato a fare quando questo articolo è andato in stampa. Le armate della Mezzaluna hanno bombardato i centri abitati e sono sconfinate per 30 chilometri, incontrando però la resistenza dei curdi, pronti a combattere fino all’ultimo per quella terra che non è mai stata loro, ma dove vivono da secoli. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, va avanti per la sua strada, nonostante le preoccupazioni di Onu e Ue e le dichiarazioni di Mike Pompeo e del Pentagono, per i quali il parziale ritiro Usa dalla Siria non è una luce verde per i piani espansionistici di Ankara (tamponando così le posizioni del presidente americano Donald Trump). Ci sono poi i messaggi che provengono dal Cremlino e almeno quelli la Turchia farebbe bene ad ascoltarli. Mosca cerca di mediare fra i curdi e il presidente di Damasco, Bashar al-Assad, in modo tale che mettano da parte i rancori del passato e facciano fronte comune. A Erdogan, l’azione militare serve a troppi scopi per rinunciarvi. Il primo è l’eliminazione militare e possibilmente demografica della presenza dei curdi nell’area, da sostituire con un milione di profughi siriani che serviranno anche a permettere la creazione di un protettorato turco in territorio siriano per liberare le città della Mezzaluna dal peso della migrazione di massa di oltre tre milioni di persone, che ha influito tanto sull’economia nazionale quanto sulla sicurezza interna, e da dove la Turchia potrà espandere la sua influenza politica, culturale e religiosa. «Con questa operazione» spiega a Panorama il giornalista Yavuz Baydar «Erdogan agisce su un doppio binario. L’espansionismo esterno, ma anche una nuova possibile ondata di terrore all’interno del Paese se qualcuno oserà opporsi a questa operazione».

Le conseguenze sono deleterie per la stabilità della regione e non solo. Da anni Ankara è accusata di fiancheggiare le frange più eversive della cosiddetta opposizione siriana e le sue città sono piene di cellule dello Stato islamico. La Mezzaluna viene considerata inadatta a prendere in consegna i 2.500 foreign fighters dell’Isis catturati dai curdi, e non solo per questioni di possibile malafede. Gli alti ranghi dell’esercito e dei servizi segreti, dopo le purghe seguite al golpe fallito del luglio 2016, hanno perso i loro elementi migliori, tanto che le forze armate e l’intelligence si sono ritrovate a gestire come emergenze situazioni che prima avrebbero evitato a priori. Falle nella sicurezza e nell’organizzazione erano già emerse con evidenza nelle precedenti operazioni oltre confine, quelle denominate «Scudo dell’Eufrate» e «Ramoscello d’Ulivo». Ma Erdogan, e qui siamo al terzo punto, con questa invasione è determinato a dimostrare a tutti, anche solo per distogliere l’attenzione del suo elettorato dalla situazione economica disastrosa del Paese (dove i progetti faraonici voluti dal presidente, come il terzo ponte sul Bosforo o il terzo aeroporto, contrastano con le strade piene di rifugiati siriani e l’impoverimento progressivo del ceto medio) che può andare avanti da solo.

Già così, i motivi per preoccuparsi ci sono tutti. E preoccupate sono le quasi mille aziende italiane presenti nella Mezzaluna. La brutta notizia è che siamo solo all’inizio e l’invasione della Siria rientra nelle aspirazioni neo imperiali di una Turchia che, ormai è chiaro, non ha più intenzione di rimanere all’interno dei suoi confini nazionali e anzi sta facendo di tutto per riportarli nel modo più somigliante possibile a quelli precedenti alla Prima Guerra Mondiale.

Dopo la Siria, sarà la volta del Mediterraneo orientale: per la precisione le acque al largo dell’isola di Cipro, spaccata in due dall’intervento armato di Ankara del 1974 e che da quel momento vive una situazione assurda, mai risolta anche a causa di Bruxelles: la parte a maggioranza greca è membro della Ue, quella turcofona, composta anche dagli oltre 40 mila coloni che la Mezzaluna ha inviato in questi anni, è riconosciuta solo da Ankara. Che però agisce come stato garante e ora sta facendo sentire tutta la sua presenza nelle acque di Cipro, dove si trovano giacimenti di gas naturale dal valore di miliardi di dollari e dove la Turchia ritiene di poter vantare precisi diritti, nonostante stia agendo fuori dal perimetro del diritto internazionale.

Argomentazioni, queste, che ad Ankara non interessano, in quanto non firmataria di alcune convenzioni sul tema. La faccenda tocca da vicino l’Europa e può avere conseguenze molto pericolose. L’Italia, con Eni, ha già fatto due volte le spese dell’arroganza turca. La prima è stata nel febbraio 2018, quando la Saipem 12000, da nave da trivellazione affittata dal cane a sei teste, è stata costretta a invertire la rotta perché nelle stesse acque si è trovata la marina che l’ha ricacciata indietro. La seconda è avvenuta pochi giorni fa, quando Eni e Total, in possesso di una regolare licenza rilasciata dal governo di Cipro (quello ufficiale), si sono viste arrivare la nave da trivellazione turca Yavuz, anche questa scortata dalla marina militare.

Nel 2023, Erdogan ha già annunciato che si batterà per la revisione del trattato di Losanna, firmato nel 1923 e che andrà a scadenza. L’obiettivo è annettere alla Turchia alcune isole greche che si trovano davanti alla costa. Un progetto che a noi può suonare come nostalgico o propagandistico, ma che ad Ankara, che il trauma dello smembramento dell’Impero Ottomano non lo ha mai superato e persegue una determinata agenda, appare assolutamente sensato. Il motivo ufficiale, con cui Erdogan fa leva sulla popolazione, è quello nazionalista, il «riprendiamoci ciò che era nostro»: la Turchia non solo trova normale un’operazione del genere, ma ritiene che le spetti di diritto. La ragione dietro a tanta determinazione è che, se ipoteticamente riuscisse nel suo intento, verrebbe ridisegnata completamente la mappa delle acque territoriali e delle zone economiche esclusive del Mediterraneo orientale. Scenario temuto da Cipro e soprattutto da Atene, tanto che il neo primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha chiesto al presidente Donald Trump di rafforzare la presenza militare Usa nell’area. La situazione è ben nota anche a Bruxelles, che però fino a questo momento non ha fatto altro se non dirsi molto preoccupata e, anzi, potrebbe dare nuovi fondi alla Turchia purché si tenga migranti e rifugiati sul suolo nazionale.

Dove Erdogan non può arrivare con l’esercito, lo fa con meccanismi di soft power che, sul lungo andare, hanno un effetto non meno pericoloso. È il caso dei Balcani, dove la Turchia ritiene di vantare, sostanzialmente per motivi storici, rapporti preferenziali. E dal 2005 ha iniziato a costruirseli. Il risultato è che in Bosnia, Kosovo e Albania, dove ci sono le componenti musulmane più numerose, la Mezzaluna è vista come la vecchia madrepatria alla quale si guarda con nostalgia, con le altre confessioni religiose che accusano Erdogan di voler islamizzare la società. Adesso, poi, il presidente sta aiutando Sarajevo a ricomporre le relazioni con la Serbia, Paese tradizionalmente nell’orbita russa e che con la Turchia non ha mai avuto buoni rapporti. Ma i tempi cambiano e Ankara è in fase espansiva. L’unico che al momento sembra in grado di condizionare le sue mosse è Vladimir Putin. Che però di certo non agisce per il bene dell’Occidente.

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