Mistero sul rapimento di padre Dall'Oglio
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Mistero sul rapimento di padre Dall'Oglio

Nessuna notizia dalla Farnesina dopo la scomparsa del gesuita che ci raccontò la sua Siria

Nonostante sia tornato in Italia da alcuni mesi, Padre Dall’Oglio usa il presente per parlare della sua esperienza in Siria, quasi per esorcizzare la paura di non rivedere più la sua patria d’adozione. Il gesuita ha passato trent’anni in questo Paese per portare avanti il dialogo tra cristiani e musulmani e restaurare, insieme ad alcuni amici, il monastero di Mar Musa, un convento tra le montagne che conserva  preziosi affreschi antichi.

Cosa le manca di più della Siria?

Mi mancano soprattutto gli amici. Non ho notizie di molti di loro, alcuni sono in galera e non posso sapere se sono vivi o sono morti.

Da quando è in Italia, le sarà capitato spesso di leggere i giornali. A suo parere, quale aspetto della rivolta siriana andrebbe spiegato meglio?

C’è un grosso equivoco da parte dei media riguardo all’Islam. Per ragioni diverse, questa religione fa paura a molti italiani. Quelli più “clericali” vedono l’Islam come una religione concorrente, dogmaticamente opposta al cristianesimo. I laici temono questa confessione, poiché ripropone il problema del ruolo della religione in politica.

Che rapporto c’è tra questa visione dell’Islam e il racconto della rivolta in Siria?

Gli occidentali non sanno che posizione prendere sulla rivolta in Siria. L’istinto suggerisce di stare dalla parte di un popolo che lotta contro un regime autoritario, ma molti ritengono che possano vincere gli islamisti e perciò temono che una nuova dittatura si sostituisca a  quella di Assad. Per questo motivo, l’opinione pubblica occidentale ha  assistito immobile alla rivolta siriana, senza sapere cosa fosse giusto  fare. Questo ha avuto come conseguenza la paralisi della politica  occidentale, incapace di scegliere.

Si dice spesso che in Siria è una società plurale, abituata alla tolleranza. È così?

La società siriana è molto complessa. Pochi giorni fa ho parlato con alcuni amici siriani su Skype e discutevamo sulle differenze tra i gruppi sunniti, la religione della maggioranza dei siriani. Spesso vengono presentati come un blocco unitario, ma tra loro ci sono molti gruppi diversi. I curdi sono sunniti, ma anche i beduini dell’est del Paese, legati alle tradizioni tribali, appartengono a questa confessione. C’è poi un sunnismo rurale e urbano, influenzato dall’esperienza del partito Baath e profondamente secolare e c’è anche l’interpretazione religiosa tollerante dei Sufi. Anche all’interno del blocco islamista ci sono molte differenze. Da una parte ci sono i Fratelli Musulmani, più vicini alla Turchia che all’Arabia Saudita, dall’altra i salafiti. Questi ultimi sono un gruppo eterogeneo: e c’è un gruppo di salafiti che rifiuta la lotta armata e c’è un’ala jihadista  che combatte contro Assad ma rifiuta le pratiche “terroriste”. Infine, c’è una minoranza estremista, vicina ad Al Qaeda, che sta combattendo in Siria contro il regime di Assad ma non per la democrazia. Io li chiamo “i clandestini a bordo della rivoluzione”.

Non teme che gli islamisti più radicali possano monopolizzare la rivolta?

Credo che più si andrà avanti e peggio sarà per la Siria. I ribelli rischiano ogni giorno la vita sotto le bombe di Assad e saranno sempre più disposti ad accettare aiuti da tutti, anche dai gruppi più estremisti.

Spesso gli analisti scrivono che la maggioranza dei cristiani sostiene  Assad, è davvero così? Quali sono le ragioni di questo consenso del presidente siriano?

Nel Medio Oriente c’è spesso una difficoltà nel “concepire l’altro”. Gli Stati moderni hanno cercato di risolvere questo problema con la  laicità, come in Siria ed Egitto, o con il confessionalismo, come in  Libano. Tuttavia, esiste un “ritardo teologico” in questa parte del mondo, bisogna ancora rispondere in modo soddisfacente alla domanda “perché dobbiamo convivere con l’altro?”. Nell’ottobre del 2010 c’è stato un sinodo per il Medioriente e tra pochi giorni il Papa sarà in Libano per consegnare le conclusioni di questo incontro. Nel documento del 2010, si chiedeva ai cristiani del Medio Oriente di essere più attivi, anche in politica. Questa è stata una delle scintille della primavera araba. Quando ci furono gli attentati alle chiese in Egitto, sunniti e copti scesero in piazza per chiedere allo regime di non sfruttare il problema dei cristiani a proprio vantaggio. Peraltro, i cristiani hanno partecipato alla rivolta araba, anche in Siria, fin dall’inizio.

C’è però anche una certa paura dei cristiani che temono una deriva integralista della rivolta...

Certo, ma bisogna capire che questi non hanno mai vissuto in democrazia, né in casa, né in chiesa, né in strada. La paura del fondamentalismo è condivisa da tutti, non solo dai cristiani. Molti sunniti non vogliono vivere in uno Stato integralista e vogliono una democrazia pluralista. L’integralismo è un problema per tutti i siriani, non solo per i cristiani.

C’è il pericolo che ci siano scontri e vendette tra i diversi gruppi etnici e religiosi?

È un rischio concreto, non si può negare. C’è una responsabilità  internazionale e sembra che ci siano delle forze interessate alla guerra civile, anche tra le potenze occidentali o regionali che sperano di indebolire lo schieramento arabo. È possibile che si stia andando verso una divisione della Siria e questa rischia di portare a massacri simili a  quelli dei Balcani. La divisione della Siria potrebbe giovare a qualcuno. Un eventuale Stato alauita vivrebbe grazie al commercio di  acqua e gas. Lo stesso Assad potrebbe essere il primo a cercare la divisione della Siria per ritagliarsene un pezzo. È necessario che intervenga al più presto l’Onu e si eviti questo scenario.

La rivolta ha cambiato i siriani?

È in corso una rivoluzione culturale fondamentale. Molti ragazzi dicono che scendere in piazza per chiedere la libertà è come un’iniezione di droga. Sta nascendo un’élite giovanile meravigliosa, ma rischiamo di “giocarcela” con la divisione della Siria e l’estremismo.

Resta ottimista?

Sono un uomo di fede. La speranza è una virtù, il pessimismo è un vizio.

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Matteo Colombo

Vive tra Ankara e Il Cairo per studiare arabo e turco. Collabora con  diversi siti di politica internazionale. Le sue grandi passioni sono  l’Egitto, la Siria e la Turchia

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