Rodney King: la morte di un simbolo involontario
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Rodney King: la morte di un simbolo involontario

Era diventato l'emblema delle tensioni razziali negli Stati Uniti del 1990. L'assoluzione dei poliziotti che lo avevano pestato era diventata la scintilla che fece scoppiare la rivolta di Los Angeles. E' stato trovato morto nella piscina della villetta della sua fidanzata. Rodney G: King suo malgrado era diventato un simbolo della lotta degli afro - americani. E per anni aveva dovuto convivere con questo difficile ruolo, che non aveva mai accettato

Una volta aveva confessato tutto il suo peso esistenziale: "La gente mi guarda come se io dovessi essere come Malcom X, Martin Luther King o Rosa Parks. Ma io non avrei mai potuto assomigliare a uno di loro, non avrei mai potuto stare lontano dai guai, non fare questo o quello. E' difficile vivere con tutte quelle aspettative da parte delle persone". Forse non potrebbe esserci epitaffio migliore per un personaggio diventanto simbolo suo malgrado della lotta degli afro-americani. Rodney K. King non è mai stato quel tipo di eroe, non avrebbe mai potuto diventare un figura positiva come quelle che hanno "fatto" la Storia dei diritti civili dei Neri d'America.

Non aveva scelto di essere un simbolo, il destino l'aveva fatto diventare tale. Se quella lontana notte del 1991, quando venne fermato dalla polizia di Los Angeles per eccesso di velocità e violentemente pestato dai quattro agenti di pattuglia non ci fosse stato qualcuno che riprendesse una telecamera la scena da un balcone vicino, se qualche mese dopo quei quattro non fossero stati assolti nonostante l'evidenza delle prove, se questo esito giudiziario non avesse fatto scoppiare la rivolta di L.A. (53 morti, più di 600 edifici distrutti o danneggiati, l'esercito per le strade) Rodney G. King non sarebbe mai diventato l'emblema delle tensioni razziali negli Usa.

Poi, lui invitò alla calma i fratelli neri; in una conferenza stampa disse una frase che rimase nell'immaginario collettivo (Can we all get along, possiamo farcela insieme), ma quella storica vicenda se (paradossalmente) riuscì a cambiare la percezione (e l'urgenza) del problema razziale negli Usa, non mutò completamente la vita di Rodney G. King. Il tassista non volle mai diventare un Testimone della lotta per i diritti civili degli afro-americani e, anzi, sembrò lottare per il resto dei suoi anni contro quella (troppo pesante per lui, confessò più tardi) etichetta.

Rimasto nella memoria collettiva, Rodney G. King, sparì dalla cronache, per fare qualche riapparizione quando andò ancora a incrociare con questioni inerenti la giustizia, come accadde alla fine degli anni'90, quando entrò e uscì dalla prigione o da qualche centro di disintossicazione per alcool e droga; o come quando venne arrestato per aver aggredito l'ex moglie e la figlia. Negli ultimi tempi era apparso in televisione in programmi come "Celebrity Rehab" e "Sober House" per raccontare la sua "rinascita". Come sintetizza il titolo del suo libro di memorie The Riot Within: My Journey from Rebellion to Redemption, pubblicato nel ventesimo anniversario della rivolta.

Soltanto negli ultimi tempi, sembrava essere riuscito a convivere (con grande difficoltà e solo in parte) con il simbolo che non aveva mai voluto essere. "Barack Obama non sarebbe al suo posto se a me non fosse successo quello che è accaduto e prima di me a decine di altri neri", aveva detto in una intervista al Los Angeles Times. Probabilmente è vero. La rivolta di L.A. è stato uno dei momenti spartiacque della recente storia americana. Gli Usa (e il mondo intero) si resero conto di quanta rabbia e frustrazione covava sotto le ceneri nei quartieri suburbani neri degli Stati Uniti.

Venti anni dopo, Rodney G. King muore nella piscina di una villetta di Rialto, un centro distante qualche decina di chilometri da Los Angeles. Aderente al suo personaggio, in lotta tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto (o dovuto) essere, se ne va un uomo simbolo (suo malgrado). Che (forse) ha voluto rimanere fedele per tanti anni dopo l'involontaria notorietà alla sua storia personale (fatta di molti errori, la droga, l'alcool) prima di trasformarla (negli anni prima della prematura morte) perché aveva compreso che quella doveva essere la sua vera eredità: ricordare cosa vuol dire essere (stato) Rodney King, con la sua esemplare (in termini di scelte sbagliate, ingiustizie subite, possibilità mancate o rifiutate), storia di nero dei sobborghi poveri d'America.

Per lui, quello sarebbe stato il vero simbolo da far vivere. In una intervista in aprile aveva detto: "Un poliziotto in prigione una volta mi disse. La gente ti ricorderà quando sarai morto e te ne sarai andato. E parlerà di te per decine di anni. Quelle parole mi spaventarono, ma allo stesso tempo mi sembrarono una benedizione."Parola di Rodney Glen King, nato a Sacramento il 2 aprile 1965, ultimo di cinque figli.

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Michele Zurleni

Giornalista, ha una bandiera Usa sulla scrivania. Simbolo di chi vuole guardare avanti, come fa Obama. Come hanno fatto molti suoi predecessori

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