Barack Obama e la guerra di Gaza
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Barack Obama e la guerra di Gaza

Il presidente ha deciso di inviare Hillary Clinton in Medioriente per arrivare a una tregua. Un passo indietro fino a ora, Obama adesso vuole che gli Stati Uniti siano protagonisti per mettere fine alla crisi e tentare di ridisegnare gli equilibri nella regione e nuovi rapporti tra i governi dell'aerea e Washington

Hillary Clinton abbandona la missione in Asia e si dirige alla volta del Medioriente. Prima in Israele, per un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, poi in Egitto e, infine, nei Territori Occupati per un faccia a faccia con Abu Mazen. Barack Obama lascia il sedile posteriore - dove era seduto finora -  e si accomoda davanti, se non al volante, almeno nel posto riservato al copilota, nel tentativo di guidare la crisi verso una soluzione.

Il viaggio della Clinton (forse l'ultimo, importante viaggio come Segretario di Stato prima della prevista uscita dal governo) non avrà solo come scopo di risolvere il conflitto tra Israele e Hamas, far tacere le armi dopo giorni di bombardamenti su Gaza e lanci di razzi sul territorio israeliano, ma potrebbe essere l'occasione per gli Stati Uniti di Obama di ritornare prepotentemente sul palcoscenico mediorientale con l'obiettivo di ridisegnare i nuovi equilibri nell'area e rivedere i rapporti tra Washington e i governi della regione.

All'epoca della prima campagna elettorale, quattro anni fa, la soluzione del conflitto israelo - palestinese era una delle priorità di politica estera della neo nata amministrazione Obama. Ma, venne abbandonata perché il presidente era impegna a fronteggiare le emergenze economiche interne. Per la Casa Bianca, il Medioriente è tornato a essere una questione centrale con lo scoppio delle Primavere Arabe.

Ma proprio quelle rivoluzioni - che vedono la luce (indirettamente) anche grazie all'avvento di Obama alla presidenza - hanno fatto perdere agli Usa d'influenza nella Regione, e più in generale nel mondo arabo, visto che hanno portato alla nascita di governi filo islamici che non hanno sicuramente come punto di riferimento gli Stati Uniti. L'esempio più significativo è l'Egitto, dove - dopo la vittoria di Morsi nelle elezioni - il ruolo di Washington  diventa meno determinante in un Paese considerato una pedina chiave sullo scacchiere regionale. In più, la prudenza della Casa Bianca nei confronti dell'Iran e, più in generale, un diverso approccio di Obama, hanno portato il rapporto con Israele ai minimi storici.

Di fatto, gli Usa di Obama non riescono ad essere i king maker della regione. Mandano aiuti e finanziamenti (i miliardi all'Egitto, il sistema anti missile isareliano), ma non hanno più il potere di veto sulle azioni dei governi che hanno rapporti con loro. Il loro peso specifico è diminuito. Così gli altri attori sono in grado di fare i loro giochi: la Turchia, che cerca di diventare la potenza regionale; il Qatar, che persegue un suo progetto regionale basato su governi nazionali guidati da esponenti dei Fratelli Musulmani.

La guerra di Gaza è un altro tassello del possibile, nuovo mosaico mediorientale. La Clinton si reca in Medioriente per arrivare a un cessate il fuoco e per ricordare a tutti che non si può prescindere da Washington.

Il New York Times suggerisce a Barack Obama la strategia da adottare. Che deve fare perno su Egitto, Israele e Turchia. Secondo il quotidiano, la Casa Bianca dovrebbe tentare di ricostruire l'asse Ankara - Tel Aviv in funzione anti iranaiana e dovrebbe puntare a un dialogo tra i Fratelli Musulmani egiziani (che hanno sotto la loro ala Hamas) e Israele per impedire ulteriori derive fondamentaliste e nuovi conflitti. A farne le spese potrebbe (dovrebbe) essere l'Autorità Nazionale Palestinese (di fatto) schiacciata dalle dinamiche e dalle forze che si muovono nell'area.

Barack Obama sa che in questi giorni si delinea la nuova mappa dei rapporti di forza in Medioriente. Gli Stati Uniti non vogliono starne fuori, ma continuare a giocare un ruolo. Non saranno più gli azionisti (politici) di maggioranza, ma vogliono rimanere nel consiglio d'amministrazione.

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Michele Zurleni

Giornalista, ha una bandiera Usa sulla scrivania. Simbolo di chi vuole guardare avanti, come fa Obama. Come hanno fatto molti suoi predecessori

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