Jean-Claude Juncker e Giuseppe Conte
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Migranti: l'immobilismo europeo si sconfigge con la trattativa

Le richieste del governo a Bruxelles sono fondate. Ma per rafforzare la posizione italiana, oltre ai toni accesi, occorre usare le armi negoziali. Il problema non è l'Unione europea ma l'egoismo dei singoli Paesi che la paralizza. A noi manca una forte diplomazia

Non è solo una narrativa. L'Italia è di nuovo lasciata sola di fronte all'afflusso di profughi. Nessun appoggio dai nostri partner, che si guardano bene dall'onorare l'impegno di condividere volontariamente l'onere dei migranti: alcuni hanno istituito controlli ai confini o chiudono le frontiere, altri rifiutano di accogliere anche un solo rifugiato.

Negli ultimi tre anni, oltre 1,8 milioni di disperati sono approdati in Europa. Dopo il picco del 2015 (più di un milione di arrivi), il loro numero è fortemente calato a seguito degli accordi con la Turchia, dei blocchi nei Balcani e dell'intesa con la Libia. Ma la tensione rimane alta: nel primo semestre di quest'anno 50 mila migranti irregolari sono venuti dal mare.

Perché il governo deve evitare le reazioni a caldo

La frustrazione del governo italiano è comprensibile. Ma non sono condivisibili alcune reazioni fatte a caldo. Non rientra nel novero delle strade percorribili sospendere i versamenti all'Ue (circa 15 miliardi di euro l'anno, di cui 12 tornano in Italia). Perché si aprirebbe una procedura di infrazione e dopo pochi mesi il governo sarebbe costretto a versarli, con l'aggravio degli interessi di mora (55 mila euro al giorno). Non si vede poi come porre nell'immediato un veto al bilancio settennale dell'Ue, in discussione a Bruxelles, dato che esso verrà definito solo tra un anno e mezzo.

La Commissione ha fatto del suo meglio per fornirci aiuti. Ha insistito con i nostri partner perché accogliessero i richiedenti asilo sulla base di quote eque, purtroppo senza successo, in assenza di una politica migratoria condivisa. Il 20 luglio, Jean-Claude Juncker ha ricordato a tutti che "l'Italia invoca da tempo, e a ragione, una cooperazione regionale sugli sbarchi", auspicando "una maggiore solidarietà da parte degli Stati membri". Ma il presidente della Commissione europea non ha l'autorità di imporre quote di ripartizione agli Stati membri.

L'Europa divisa in due

La crisi migratoria rivela la crisi politica dell'Europa. L'assenza di solidarietà, di coesione e di governance, di cui si è avuto prova, dimostra che il nostro continente è diviso in due: la parte occidentale, liberale, multiculturale, attenta ai valori democratici e ai diritti dell'uomo, almeno a parole; la parte orientale, dove per 50 anni ha dominato il comunismo, più omogenea e identitaria. Lungo questa linea s'incontrano i limiti e le contraddizioni dell'Europa di oggi.

I Paesi dell'Est, i quattro di Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria), hanno aderito all'Ue, attratti dal grande mercato. Sono però indifferenti all'Unione politica, quella che dovrebbe gestire l'ondata migratoria e soprattutto condurre al completamento dell'Eurozona. Ora, proprio su questo fronte si profilano i più gravi problemi se non si completerà il sistema monetario che aggrava gli squilibri tra le diverse aree dell'Unione, penalizzando quelle del Sud.

Manca una iniziativa forte per uscire da una situazione che si va incancrenendo. Il presidente francese Emmanuel Macron, un anno fa alla Sorbona, parlò di un'Europa, sovrana, unita, democratica. Ma si è fermato lì. Perché allora non proporre ai nostri partner una riflessione a Bruxelles sugli obiettivi da raggiungere sulla base dei principi su cui riposa l'idea d'Europa: fiducia reciproca, solidarietà condivisa, corresponsabilità? Perché un governo del cambiamento non dovrebbe promuovere il cambiamento in Europa? In vista delle elezioni del Parlamento del 2019, guardando al futuro del nostro continente.

L'esempio di Margaret Thatcher

Certo, chi non si riconosce nei principi fondamentali del Trattato di Roma si escluderebbe da ogni forma di cooperazione rafforzata e da una maggiore integrazione, pur rimanendo parte del grande mercato. Contatti preliminari con la Commissione, con la presidenza, con i nostri partner potrebbero essere affidati a valenti funzionari della Farnesina, attualmente senza incarico, perché sono state inopinatamente soppresse le Direzioni generali geografiche (e tra queste la Direzione generale per il Mediterraneo) e quella per l'Integrazione europea, depotenziata in un contenitore più ampio. Rimarrebbe poi, comunque, l'azione da svolgere in parallelo per la concessione di una maggiore collaborazione e di più consistenti aiuti ai Paesi di primo approdo. Che si possano conseguire risultati, lo ha dimostrato la signora Margaret Thatcher, che nel 1984 ottenne in via permanente al Consiglio europeo di Fontainebleau la restituzione del cosiddetto assegno inglese, al termine di un negoziato condotto con tenacia nel quadro delle procedure comunitarie.

Non ci sono scorciatoie: la preparazione dei dossier, la ricerca di alleanze, l'ampliamento graduale dell'area del consenso sono per Bruxelles l'unica strada maestra. Nel 1979 un diplomatico italiano, l'ambasciatore Roberto Ducci, che si era con passione dedicato ai temi dell'integrazione europea, pubblicò un articolo in cui prevedeva la scomparsa in Europa delle ambasciate. Una specie di elogio funebre della diplomazia. Le cose sono andate diversamente: nonostante il grande lavoro svolto a Bruxelles per promuovere una politica estera comune, questa non ha in alcun modo sostituito le politiche nazionali. Al contrario, la necessità di disporre di una rete diplomatica efficiente è più che mai avvertita: aumentato il numero dei Paesi membri, si sono moltiplicate le possibilità di contrasto. La cronaca di questi giorni lo dimostra. 


(Articolo pubblicato sul n° 37 di Panorama in edicola dal 30 agosto 2018 con il titolo "L'immobilismo europeo si sconfigge con la trattativa")


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Umberto Vattani